Gli indagati si dimettano. Anzi no, «valutiamo caso per caso». La capriola di Luigi Di Maio sul ministro dell'Interno Matteo Salvini, indagato dalla Procura di Agrigento, che però «deve rimanere al suo posto» è solo l'ultimo capitolo di una storia fatta di proclami, ripensamenti, contraddizioni. Il capo politico M5s nel difendere l'alleato della Lega si è appellato al nuovo «codice etico» grillino. Varato a gennaio del 2017, il «codice di comportamento in caso di coinvolgimento in vicende giudiziarie», è stato definito norma «salva-Raggi» ma se ne è avvalso lo stesso Di Maio, indagato per diffamazione dalla procura di Genova dopo la querela di Marika Cassimatis, ex candidata alle comunarie genovesi, poi espulsa. Il regolamento prevede una «valutazione discrezionale», da parte del Garante Beppe Grillo e di un collegio di probiviri, delle sanzioni da applicare quando un eletto è raggiunto da avviso di garanzia.
Le dimissioni non sono automatiche dunque, nonostante il M5s abbia fatto un cavallo di battaglia dell'incompatibilità degli indagati con qualsiasi carica pubblica. Ieri ha fatto il giro del web il tweet scritto da Di Maio nel 2016 in cui chiedeva le dimissioni dell'allora ministro dell'Interno Angelino Alfano, indagato per abuso d'ufficio. «Le nostre forze dell'ordine non possono avere il loro massimo vertice indagato - tuonava l'attuale vicepremier - Si dimetta in 5 minuti!». Pure il Guardasigilli Alfonso Bonafede glissa: «Non entro nel merito dell'indagine». Capriole. E certo. Come dimenticare, a partire dalla nascita del M5s fino ad oggi, gli attacchi al Silvio Berlusconi sotto inchiesta. Ma lo stesso trattamento è stato riservato a tutti gli avversari politici. Maria Elena Boschi, ad esempio, è stata più volte l'oggetto delle richieste di dimissioni. L'ultima a dicembre 2017, dopo l'audizione dell'allora ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan davanti alla commissione d'inchiesta sulle banche. La Boschi, all'epoca sottosegretario a Palazzo Chigi, non era indagata ma il Movimento ha tirato in ballo il conflitto d'interessi su Banca Etruria: «Ora le dimissioni non sarebbero soltanto un atto dovuto, ma persino una forma di tutela della propria dignità personale». Due anni fa, dopo l'avviso di garanzia ricevuto da Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena, per bancarotta fraudolenta, Di Maio scriveva su Twitter: «Tutto il Pd si dovrebbe dimettere in tronco perché incapace di gestire la cosa pubblica».
Restando in tema «giglio magico», un'altra vittima del M5s è stata Luca Lotti, indagato per rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento nell'inchiesta Consip. Di Maio commentava così nel marzo 2017: «Noi vogliamo che il ministro Lotti e tutto il giglio magico si allontanino dal governo». Lotti e la Boschi hanno avuto entrambi una mozione di sfiducia da parte del Movimento.
I pentastellati nel 2016 hanno chiesto anche le dimissioni del governatore campano del Pd Vincenzo De Luca dopo la pubblicazione di un'intercettazione in cui De Luca invitava 300 sindaci e consiglieri regionali a utilizzare metodi clientelari durante la campagna elettorale per il referendum costituzionale. Il 14 luglio scorso Di Maio, da Matera, ha chiesto le dimissioni del governatore lucano dem Marcello Pittella, ai domiciliari per falso e abuso d'ufficio.
Andando indietro nel tempo, a ottobre 2015, Alessandro Di Battista diceva: «Non è più una questione di legittimità, ora è diventata una questione morale.
Per questo Marino si deve dimettere». Ignazio Marino, sindaco di Roma, era sotto inchiesta, poi assolto, per peculato, falso e truffa. Infine Federico Pizzarotti, sindaco di Parma ex M5s, espulso a maggio 2016 perché indagato per abuso d'ufficio.
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