
La sentenza politica si materializza in un post che, come il pentimento dopo un azzardo, appare e scompare dal profilo Facebook di un magistrato del tribunale di Trieste: Debora Serracchiani è «un errore della Storia». La governatrice è «supponente e inconsistente, lascerà il vuoto dietro di sé». A dirla tutta «sarebbe stato meglio che non fosse entrata in politica. Credo che nessuno la rimpiangerà». Giorgio Nicoli, otto anni da pm, ora giudice con alle spalle la recente sentenza che ha assolto i consiglieri regionali dall'inchiesta sulle spese pazze, non si accorge che il suo commento sta per innescare una bufera. Risponde alla domanda di un utente su quale sia la peggiore riforma della presidente piddina. È un flash sulla tastiera. Il giudizio politico arriva di getto. E il sottile argine d'imparzialità che separa i ruoli di toga e cittadino, si rompe. I piani si sovrappongono. Si ripropone il cortocircuito dell'uso disinvolto e talvolta ingenuo dei social da parte di certi magistrati. Leggerezze, opinioni. Dalla pm amica dell'avvocato dell'imputato a quella che elogiava l'avvenenza di Gabriel Garko, fino al presidente del Tribunale di Bologna, Francesco Maria Caruso che bollava i sostenitori del Sì al referendum come dei «repubblichini». La piazza virtuale non perdona. Il Csm spesso archivia. Il post di Nicoli fa il giro del web, lui lo rimuove e lo sostituisce con una riflessione di scuse. «Mi rendo conto di aver per un attimo sottovalutato il fatto che - ricoprendo il ruolo che ricopro - era meglio non scrivessi quelle righe per ragioni di opportunità».
Ma il rammarico della governatrice, a cui tocca sperimentare le falle della terzietà, è irrimediabile: «Chi ricopre ruoli che danno grande potere sulla vita delle persone non dovrebbe gettare nessuna ombra di parzialità sul suo operato. Quando ciò accade, come in questo caso, si erode la credibilità di un intero sistema».
Il giudice che condivide sulla sua bacheca la passione per la musica classica e una simpatia per la Dc, si definisce politicamente «padre senza patria» e al Piccolo assicura di non avere aspirazioni in tal senso. Quello era «uno sfogo da semplice cittadino e utente di Facebook» e non «in nome del mio ruolo».
Ma la bufera porta con sé aria di procedimento disciplinare: il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini si è già attivato per avere una relazione sul caso, che verrà affrontato nel prossimo comitato di presidenza. Il Csm potrebbe contestare a Nicoli l'illecito o sollevare l'incompatibilità ambientale. «La prima commissione - spiega il membro laico Pierantonio Zanettin - si è imbattuta in giro per l'Italia diverse volte in profili di inopportunità nell'utilizzo di Facebook da parte dei magistrati».
Tanto che l'organismo, sempre più spesso costretto a predicare buon senso e a bacchettare le imprudenze commesse dai colleghi in rete, intende arrivare presto a linee guida dedicate alle toghe che sbarcano sui social. Un codice di comportamento per l'arena virtuale. Per non perdere la misura del reale.
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