Politica

Dal «tono dialogico» alla «caducazione» Il lessico di Conte, neo dc con la pochette

L'arte delle doppiezza: ecco perché il premier usa una terminologia barocca

di Carmelo Caruso

L a soluzione? «È condivisa sul punto di convergenza». Il dossier? «È coordinato personalmente per non soggettivizzare il conflitto». E il tono? «Dialogico». Ma soprattutto la soddisfazione è massima per «aver coagulato» i partner. Ma può essere davvero questa la lingua del cambiamento o è questa la lingua dell'intrigo e dell'astuzia? Con un lessico oscuro e untuoso, Giuseppe Conte ha riportato in politica il vecchio e indecifrabile codice di legno, la terminologia sbiadita che l'Italia aveva finalmente seppellito. Regista della richiesta di dimissioni di Armando Siri, artefice dell'imbroglio semantico che ha fatto uscire Lega e M5s dal tunnel («bandi» al posto di «gare») della Tav, e ancora, prestigiatore di cifre che hanno impedito una procedura di infrazione (dal 2,4 al 2,04) e messo nel sacco la Commissione Europea, («Vedete, sono stato bravo»), l'avvocato del popolo e l'ignoto professore di diritto stanno lasciando sempre più il posto al cardinale furbo e diabolico, un Andreotti con la pochette al posto della gobba. Senza la qualità dei leader, ma nella peggiore tradizione di quel personaggio descritto dal Manzoni, quell'avvocato «a cui bisogna raccontare le cose chiare; tocca poi a lui imbrogliarle», di Conte stiamo infatti imparando che le sue parole vuote sono in verità cariche di raggiri.

Che dire delle frasi di compassione con cui ha prima preso tempo, («Ho bisogno di parlare con Siri, per me conta la componente umana») rispetto al codice freddo e spietato che ha utilizzato in una conferenza stampa per dimissionare il sottosegretario? «Se emergesse che Siri è stato latore di un interesse privato e non generale, sarebbe una questione grave a prescindere da dazioni». Come si capisce, è solo una perifrasi, un viaggio lungo che nasconde il veleno che ha servito alla Lega e a Matteo Salvini. E già in un'altra occasione, quando rischiava sul dossier libico di essere scavalcato dal suo vicepremier, diceva che il dossier lo avrebbe coordinato personalmente «in modo da evitare iniziative che potrebbero soggettivizzare il conflitto».

A Palermo, era dunque soddisfatto per aver «coagulato» tanti partner intorno a un tavolo. Attenzione, non è il retaggio dei suoi studi giuridici, la vecchia identità che frena la nuova. È di più. È il dire attraverso il non dire, era l'arma che usavano i più consumati esponenti della Democrazia Cristiana. Quando si chiedeva, anzi veniva già data per fatta, la revoca della concessione autostradale al gruppo Benetton, quando Luigi Di Maio e Danilo Toninelli chiedevano un processo in piazza, dopo un momento di furore dello stesso Conte, «Non possiamo aspettare i tempi della giustizia», era lui stesso a usare una frase che non era altro uno stratagemma per far dimenticare la pratica: «Ho avviato la procedura di caducazione della concessione». E quando ancora il reddito di cittadinanza escludeva alcune categorie e non convinceva la Lega, Conte rassicurava così, ma in segreto spalleggiava i Cinque Stelle: «Alcune applicazioni giurisprudenziali lasciano una qualche incertezza che bisogna diradare». Perfino in Europa ha messo in pratica la doppiezza. Accanto ad Angela Merkel, che invitava al bancone di un bar, malignava sia di Salvini che «è contro tutti», sia del M5s, «che è in sofferenza perché cala nei sondaggi e ha paura di perdere». E come dimenticare il concorso universitario da ordinario a cui, da premier, avrebbe voluto tanto partecipare se la stampa non lo avesse pizzicato? In quel caso dichiarò di aver rinunciato ma lo fece con un video pubblicato su Facebook e soltanto dopo con una lettera formale. Insomma, è forse soltanto adesso, dopo un anno, che si sta svelando la sua vera natura. Sempre più simile a quel servo dello spettacolo teatrale di Joseph Losey.

Alla fine rimaneva lui il vero proprietario della casa.

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