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Tornare alla lira è una minaccia che ci rende più forti a Bruxelles

Un'uscita dall'euro danneggerebbe il made in Italy. Roma dovrebbe minacciare di farlo per poter stare nel club monetario in condizione di parità

Tornare alla lira è una minaccia che ci rende più forti a Bruxelles

Se anche le grandi banche italiane con strategie internazionali studiano, con i loro uffici di ricerche economiche, se all'Italia possa convenire l'uscita dall'euro e se essa sia finanziariamente praticabile, vuol dire che questo non è un tema da lasciare agli anti europeisti e ai populisti viscerali, ma un tema da prendere sul serio. Del resto importanti economisti liberali tedeschi come Charles Blankart e Michael Wohlgemuth hanno teorizzato una Europa con due club dell'euro uno nordico, basato sulla preferenza per la stabilità monetaria intesa come moneta forte e l'altro meridionale con preferenza per la stabilità monetaria intesa come un contenuto tasso di aumento dei prezzi che eviti sia l'inflazione che la deflazione e consenta una moderata flessibilità. Ma all'Italia non conviene un'uscita dall'euro, che danneggerebbe il made in Italia, dato che incrinerebbe il mercato unico europeo, conviene invece essere liberi di poter esercitare l'opzione di exit dall'euro, senza traumi e senza costi finanziari, quale modo per poter stare nel club monetario europeo in condizione di parità in modo che siano rispettate regole del gioco corrette e la stabilità monetaria sia intesa nel senso ragionevole.

Per fare questo ci sono due regole molto semplici: la prima è avere un mercato del lavoro flessibile con contratti diversi nelle diverse realtà geografiche e sociali e con orientamento alla produttività. Ciò perché se il cambio esterno della moneta è un dato su cui abbiamo una influenza molto limitata, dobbiamo avere una economia competitiva flessibile. Il secondo, fondamentale, principio è quello che bisogna avere il bilancio in quasi pareggio, con un deficit che faccia scendere automaticamente ogni anno il rapporto fra debito pubblico e Pil, quando esso superi sostanzialmente il 100% del Pil e consenta, poi, di arrivare al 90%. Per l'Italia si tratta di arrivare al deficit dello 1,7%-1,8 % del Pil. Non siamo molto distanti da questa soglia, perché ora siamo al 2,3-2,4 e l'Unione europea ci chiede di giungere nel 2017 al 2,1 che con l'aggiunta di un miliardo fuori bilancio ordinario per l'emergenza terremoto ci porta al 2,2. Nel 2017 il Pil reale può crescere dello 0,8% del Pil, mentre il tasso di inflazione riguardante il Pil sarà attorno allo 1,1 almeno. Il Pil globale così crescerà dell'1,8/1,9%. Esso era 1.670 miliardi di euro nel 2016 ed arriverà a 1.700 nel 2017. Il debito pubblico del 2016, che è 132% del Pil, era circa 2.200 miliardi e crescerà nel 2017 a 2.230 miliardi per effetto del deficit annuale di 30 miliardi e pertanto il debito Pil scenderà al 131,2% circa. Fatta questa prima operazione, se nel 2018 abbassiamo il deficit allo 1,5% del Pil, il livello fisiologico del quasi pareggio, il nuovo debito si riduce a 25 miliardi e il rapporto debito Pil scende a 130,3%. Nel frattempo, la domanda di nuovo debito italiano si è ridotta in due anni di oltre il 20% e ciò consente all'offerta di piazzarlo a condizioni favorevoli. Ciò controbilancia il rialzo dei tassi di interesse ordinari, dovuto alla fine della politica di espansione della Bce.

Per attuare questa politica, considerato che la spesa pubblica è il 50% del Pil, basta mantenerla invariata, se il Pil cresce di 1,9%. Poiché il problema del debito si sta risolvendo col bilancio in quasi pareggio, siam liberi di sceglier l'euro o no senza traumi.

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