L'analisi del G

Il tramonto dell'iPhone. Crisi interne e rivali stanno smontando la leggenda della Apple

Le vendite ancora reggono, ma non è più un totem. Il prossimo dispositivo sarà "made in Cupertino", però prodotto in Cina e Vietnam, con l'intelligenza artificiale di Xi Jinping o, se va bene, di Android

Il tramonto dell'iPhone. Crisi interne e rivali stanno smontando la leggenda della Apple

La semplicità è la più grande forma di sofisticazione, diceva Steve Jobs. Il problema però è che per l'iPhone è diventato tutto molto complicato.

Lo stanno smontando, pezzetto per pezzetto, dall'interno e dall'esterno. Resta lo smartphone più venduto, quello più desiderato, il dispositivo che tutti i ragazzi vogliono, perché se non hai AirDrop per passarti foto e file in un attimo sei proprio uno sfigato. Eppure l'iPhone non è più lui, o meglio è sempre lo stesso, modello dopo modello: migliora ma non troppo, però non si evolve. Come un monumento alla sua grandezza che però comincia a mostrare qualche crepa.

Per esempio: il sistema chiuso inventato da Jobs e difeso strenuamente da Tim Cook, non è più un mantra. Sì, «è per la privacy degli utenti», che poi è sempre stata l'ossessione di Apple. Vero, ogni dato sensibile resta nel telefono, ogni spostamento, pagamento, inserimento, nei server di Cupertino appaiono come ombre nel deserto, criptate e inaccessibili. Però, poi, la sicurezza ha mostrato qualche primo imbarazzo, e già nel 2023 gli ingegneri dell'azienda più (auto)ammirata del mondo sono dovuti intervenire almeno una decina di volte per tappare dei buchi trovati dai pirati del web. E se la modalità isolamento disponibile nelle impostazioni è, come dice il sito dell'azienda, la funzionalità di protezione più elevata per iPhone, è altrettanto inevitabile che non sia una sicurezza assoluta. Esisteva invece, almeno così si pensava un tempo.

E allora il totem non c'è più, anche perché non è neppure quell'oggetto indiscutibile nessuno una volta non si sarebbe mai segnato di mettere in dubbio. E invece ci ha pensato prima l'Europa, cominciando dalla porta d'ingresso, quella Usb-C che hanno tutti e che gli iPhone 15 sono stati costretti ad adottare, pena il bando dal mercato del Vecchio Continente. La stessa porta d'ingresso che portava a un club esclusivo di miliardi di persone nel mondo. E poi il Digital Markets Act, che costringerà il sistema operativo ad accettare l'innominabile, ovvero servizi di altre aziende concorrenti, una specie di eresia che ha sollevato una fiera protesta dagli uffici della sede circolare nella Silicon Valley, ma non di più: musica, mappe, wallet, non resterà nulla che non abbia un'alternativa accessibile. E poi, la verità è che il segnale definitivo è arrivato in casa, quando a marzo l'Antitrust più 15 Stati americani hanno scatenato l'inferno, certificando che nessuno può essere intoccabile per sempre: Quello dell'iPhone è un monopolio. La causa sarà lunga ma in qualche modo il destino è segnato.

Così l'Phone 16 che uscirà in autunno sarà ancora il miglior iPhone di sempre, come recitano ogni volta orgogliosamente i comunicati della vittoria di Apple, eppure non sarà la stessa cosa: a giugno, quando l'azienda riunirà come al solito tutti i suoi sviluppatori di app nella conferenza annuale, si capirà quanto. Ma il cambiamento è già iniziato e se vi è capitato di scaricare l'ultimo aggiornamento del sistema operativo, ovvero l'iOS 17.4.1, vi sarete accorti che - quando avete riacceso tutto - lo smartphone vi ha chiesto quale browser volete adottare per navigare in internet, con una lista da cui scegliere: Safari, insomma, diventa un'eventualità.

Come si è arrivati a questo punto? Forse per pigrizia, nel senso di una visione del futuro che Apple ha pensato fosse comunque una strada segnata. O forse perché le visioni e i visionari, a un certo punto della storia, finiscono. Così, mentre le aziende concorrenti hanno investito per rendere i loro smartphone sempre più performanti, l'iPhone è rimasto un po' nel mezzo, nel design (non cambia aspetto ormai da dalla versione 12, se non in qualche minimo particolare), nell'unicità (i modelli sono diventati 4), nel progresso (la fotocamera è arrivata a 48 megapixel quando in giro si parla ormai di 200), nei difetti (la batteria è rimasta il solito problema da risolvere, mentre i rivali durano anche due giorni e si ricaricano in meno di mezzora). Costa sempre tanto, e siccome viene comprato (sempre di più a rate) ha ragione di esserlo, costoso. Però nella storia della tecnologia dormire sugli allori di solito non ha prodotto grandi risultati. E poi c'è il fatto che l'iPhone sembra quasi essere come quei soprammobili che i manager mettono sul tavolo e che man mano nel tempo arretrano nella fila dei più desiderati: la Apple di Cook, in pratica, rendendosi conto che la rivoluzione smartphone avrebbe avuto un limite, ha trasformato l'azienda in un fornitore di servizi, cosa che ha permesso di continuare a macinare miliardi di trimestrali di fatturato grazie alle app (e alle commissioni applicate). Solo che ora quei servizi sono sotto attacco, e il capo sarà costretto a scendere a compromessi. Anzi: lo sta già facendo.

Perché poi, certe cose, cominciano sempre dove meno te lo aspetti. L'Oregon, uno Stato che ha meno abitanti di Roma, ha recentemente introdotto per legge il diritto alla riparazione, ovvero la possibilità dell'utente di far sistemare il proprio smartphone in qualsiasi negozio specializzato in nome della sostenibilità e della lotta ai rifiuti elettronici. Sì, anche l'iPhone: sacrilegio. Una norma che presto diventerà tale anche in altri pezzi d'America, e così l'azienda è già corsa ai ripari annunciando che da novembre sarà possibile accedere agli strumenti di riparazione fai-da-te selezionando anche singole parti di sostituzione non nuove, sempre originali, ma usate. Però è un palliativo, appunto un compromesso: si può mettere le mani dentro un iPhone, è questa è un'altra di quelle cose che sembravano impossibili. Come il fatto che in Cina il Melafonino dovrà avere Baidu, il Google cinese, come sistema per introdurre l'intelligenza artificiale. Praticamente una resa.

Già, l'AI, la prossima next big thing che era il colpo di scena che Jobs si teneva per ultimo nei suoi keynote. Ma allora non era certo una confessione di essere in ritardo su quello che cambierà il mondo. Perché la vera sorpresa è che Apple, che ha speso anni e miliardi a rincorrere la sua futura automobile autonoma che non vedrà mai la luce (il progetto Titan è stato appena dismesso), che ha pensato che il suo visore Vision Pro potesse fare la differenza, ha perso il treno dell'innovazione e sta chiudendo un accordo per inserire su iPhone 16 il modello Gemini. Proprio quello di Google, gli acerrimi rivali sul mercato e in tribunale che ora diventano alleati, obtorto collo. Quindi, riassumendo, il prossimo iPhone sarà made in Cupertino, però prodotto in Cina e Vietnam, con l'intelligenza artificiale di Xi Jinping o, se va bene, dell'azienda rivale che Steve Jobs avrebbe voluto distruggere: «Farò un guerra termonucleare per riuscirci» disse quando uscì Android.

Quasi tre lustri dopo, il colpo sembra essere partito dalla parte sbagliata.

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