
La pace si fa tra nemici. È il primo requisito di ogni negoziato. Ed anche il principale problema del cessate il fuoco che Donald Trump spera di trasformare in pace "eterna" per tutto il Medioriente. I risultati purtroppo si vedono. A neanche una settimana dalla restituzione degli ostaggi israeliani ancora in vita e dalla liberazione di quasi duemila prigionieri palestinesi, le intese scricchiolano. E i venti di guerra tornano a spazzare le rovine della Striscia. La ripresa degli scontri è una delle principali conseguenze di accordi raggiunti non facendo dialogare i veri avversari, ma delegando le intese a garanti e procuratori. Gli Stati Uniti per Israele. Il Qatar, la Turchia e, in misura minore, l'Egitto per Hamas. Con due problemi aggiuntivi. Il primo è l'assenza di un mediatore autenticamente neutrale capace di indicare colpe e mancanze delle due parti in causa. Il secondo è l'assenza di un accordo preciso concordato fin nel minimo dettaglio e approvato punto per punto dai due avversari. Prendiamo la questione fondamentale del disarmo di Hamas. Nell'interpretazione di Israele la consegna delle armi dovrebbe essere immediata e incondizionata. Nella lettura di Hamas e dei suoi garanti è un processo destinato a durare anni e portare alla trasformazione del gruppo armato in una struttura politica capace, con l'appoggio dei "padrini" di Qatar e Turchia, di giocare un ruolo nella futura amministrazione della Striscia.
Una differenza di vedute emersa in tutta la sua prepotenza nell'intervista di Reuters a Mohammed Nazzal membro dell'Ufficio Politico dell'organizzazione. Nell'intervista il responsabile ammette l'intenzione di mantenere il controllo ad interim di Gaza per un tempo non meglio specificato e spiega le modalità con cui Hamas intende rinunciare alle armi. O, meglio, non rinunciarvi affatto. "Sul disarmo - spiega - non posso rispondere con un sì o con un no. Francamente dipende dalla natura del progetto. Cosa significa il progetto di cui state parlando? A chi dovrebbero venir consegnate le armi?". Domande giocate sul filo dell'ambiguità che da sempre caratterizza l'organizzazione, ma non totalmente avulse dalla realtà. Il disarmo - oltre a non esser mai stato concordato con i rappresentanti di Hamas - non è inserito nell'accordo sul cessate il fuoco firmato il 9 ottobre a Sharm El Sheik. L'intesa riguarda solo lo scambio di ostaggi e prigionieri e rimanda tutti gli altri punti a una seconda fase degli accordi. Un'interpretazione assolutamente inaccettabile per Israele convinto che il disarmo dell'organizzazione rappresenti un elemento inderogabile per garantire la fine delle ostilità e il ritiro dell'esercito sul 53 per cento della Striscia. "In base agli accordi - sottolinea un comunicato diffuso dall'ufficio del premier Benjamin Netanyahu - Hamas deve consegnare le armi e aderire senza se e senza ma al piano in venti punti. Fin qui non l'ha fatto, ma ora il suo tempo sta per scadere".
Ma a questo punto oltre al disarmo navigano nell'ambiguità anche i piani per la creazione di una forza di pace e per la formazione di un autorità provvisoria a cui affidare
l'amministrazione della Striscia. Tutti punti che al pari del disarmo sono stati rimandati ad una nuova fase negoziale. Con il rischio assai concreto che il richiamo delle armi spenga qualsiasi disponibilità a ulteriori trattative.