La prigione per chi è stato il leader della sinistra mondiale con tanto di voci insistenti, ai tempi d'oro, che lo volevano addirittura segretario generale dell'Onu, non è notizia di tutti i giorni. Eppure è il destino gramo che toccherà a Lula il prossimo 10 aprile, quando scadrà l'ultimo dei ricorsi possibili dei suoi difensori. A quel punto al giudice Sergio Moro (il principale artefice della Lava Jato, la Mani Pulite verde-oro) non resterà che decretare il carcere di Lula, condannato lo scorso 24 gennaio in appello a 12 anni e un mese per corruzione e riciclaggio. Altre condanne ancora quest'anno si abbatteranno su Lula imputato in almeno sei processi la prima per le stecche Odebrecht legate al suo Istituto e, dunque, quasi impossibile possa essere candidato alle presidenziali del prossimo 3 ottobre.
Triste se si pensa che, nonostante i tanti scandali che lo hanno coinvolto, ancora adesso tutti i sondaggi lo vedono in testa, con oltre il 30% delle intenzioni di voto. Certo, oggi suona beffardo il Lula dei tempi d'oro, che disse testualmente «Petrobras prima di me era una scatola nera, oggi col nostro governo è trasparente e noi sappiamo ciò che succede là dentro», visti poi i 3 miliardi di dollari, un record, pagati dalla stessa Petrobras a New York per chiudere tutti i processi a suo carico per corruzione negli Usa. Triste che faccia la fine del galeotto chi doveva essere il Che Guevara del Terzo Millennio, un ex sindacalista nato povero che, all'odio usato come modus operandi dal guerrigliero per imporre la rivoluzione a Cuba, aveva sostituito la formula magica della pace e dell'amore. Non a caso, quando nell'ottobre 2002 vinse le sue prime presidenziali, lo fece all'insegna dello slogan «Lula paz e amor».
A guardarsi indietro, a lanciare Lula nell'olimpo politico mondiale è stata la sua dote, innata, al dialogo con tutti e, anche, il doppiogiochismo. Inutile negare che all'epoca della dittatura, quando fu arrestato per 30 giorni, la sua carcerazione fu sui generis: sedette di fronte fumando nell'auto della polizia che lo portava via e, mentre altri furono torturati e «suicidati», in quel mese «rinchiuso» nella sede paulista del Dops (la polizia politica) a lui il capo che poi diventò suo amico, Romeu Tuma, consentiva di uscire la notte e di dormire non in cella bensì sul suo divano, assistendo alle partite del Corinthians in tv. Del resto, fu il generale Golbery do Couto e Silva a lanciare Lula come futuro leader politico di sinistra perché, oltre ad abilissimo affabulatore, offriva più garanzie di chiunque altro all'élite locale in quanto, a detta del militare «di sinistra in realtà Lula non aveva nulla, ma era un bon vivant» (Emilio Odebrecht dixit).
La grande colpa di Lula, invece, è stata quella di non denunciare il verminaio di corruzione a Brasilia emerso poi con la Lava Jato, e che adesso lo ha travolto. Il non avere avuto il coraggio di farlo quando aveva oltre l'80% di appoggio popolare ed era presidente, in cambio di una fazenda ad Atibaia e di un triplex vista mare a Guarulhos, di un egocentrico Istituto Lula nella zona bene di San Paolo e di qualche milione in più nelle tasche dei suoi figli, sono la causa del carcere di oggi.
La speranza, per il Brasile, è che quella di Lula sia solo la prima di una lunga serie di prigioni eccellenti, da Temer ad Aecio Neves, da Alckmin a José Serra, da Renan Calheiros a Romeo Juca, il Paese del samba ha bisogno di una catarsi. Se il sacrificio di Lula è funzionale a tal fine ben venga, altrimenti sarà solo fine a se stesso o, come dicono i lulisti, persecuzione politica.
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