San Paolo Mentre Trump ribadisce che l'invio di truppe in Venezuela rimane «un'opzione» possibile, i Faes, i gruppi speciali delle forze armate bolivariane, sono entrati anche ieri di notte nei quartieri più popolari di Caracas per uccidere. Certo, rispetto al 23 gennaio scorso, quando il presidente ad interim Juan Guaidó ha giurato seguendo alla lettera l'articolo 233 della Costituzione del Venezuela, il ritmo delle mattanze è calato. Non perché fosse domenica ma perché - come dimostrato tre giorni fa quando uomini dello stesso Faes circondarono la casa di Guaidó senza però arrestare nessuno della sua famiglia - anche al corpo più sanguinario della dittatura comincia a tremare la mano.
Ieri Maduro, intervistato dalla tv spagnola La Sexta, ha evocato «il rischio di guerra civile», dicendo che tutto dipenderà «dal grado di follia degli imperialisti del Nord» ed assicurando di «essere pronto a difendere il mio Paese» e di avere «gente nelle fabbriche, nelle università e in altri luoghi che non vedono l'ora di combattere». «Veramente? Mi fa paura quello che lei mi dice» lo interrompe il giornalista mentre, di rimando, il delfino di Chávez gli risponde «a me no». Ecco, il problema sta proprio lì: nel volere fare credere al mondo che Maduro abbia ancora il popolo dalla sua parte. Oltre che la legge, altrimenti l'intervistatore non avrebbe dovuto chiamarlo presidente. Un favore alla dittatura andato in onda proprio a poche ore dalla scadenza dell'ultimatum di 8 giorni che 6 paesi europei tra cui la Spagna (Germania, Francia, Olanda, Portogallo e Regno Unito gli altri) avevano dato al caudillo di Chávez per indire nuove presidenziali: «Ora le organizzi Guaidó».
Un riconoscimento non dovuto al dittatore che per la Costituzione venezuelana usurpa il potere dal 10 gennaio e che se mai le avesse indette, le presidenziali, le avrebbe comunque frodate, come quelle del 20 maggio scorso. A scanso di equivoci, comunque, Maduro ieri ha ribadito di infischiarsene degli ultimatum, annunciando invece elezioni anticipate per il Parlamento, ultima istituzione democratica rimasta a Caracas e da cui lo stesso Guaidó emana il suo ruolo di presidente ad interim. Sulla fine dell'appoggio popolare a Maduro, poi, non ci sarebbero dubbi, se solo si aprissero gli occhi facendosi un giro nelle marce dei suoi supporter, quasi tutti militari o persone costrette dalla minaccia di ritorsioni: sempre più deserte, nonostante gli sforzi per «rimpolparle», ricorrendo a foto d'archivio o a inquadrature sempre più strette. «L'altro ieri, in tutto il Venezuela, sono scese in strada circa 10 milioni di persone ad appoggiare Guaidó», spiega dati alla mano Nicmer Evans, un politico di sinistra che come tanti ha appoggiato il chavismo degli inizi. Lui, come l'opposizione venezuelana e il 90% della gente che vuole liberarsi di Maduro, chiede «l'entrata urgente degli aiuti umanitari e libere elezioni con la partecipazione di tutti». Compresi tanti altri ex chavisti che di Maduro ne hanno le tasche piene. Su tutti l'ex ministro del dell'Energia di Chávez tra 2002 e 2014 nonché presidente di PDVSA, Rafael Ramírez che ha fatto l'annuncio l'altro ieri, nonostante le tante accuse contro di lui per il saccheggio della statale petrolifera.
E mentre ieri la polizia bolivariana si è abbracciata in tante piazze con la gente, rifiutando di sparargli addosso per fermargli il passo è successo a Barquisimeto, nella regione di Lara e in quella di Tachira - il vero problema di Guaidó è che continua ad essere definito da tanti media come «il presidente autoproclamato». No, è il presidente costituzionale, dal 10 gennaio l'autoproclamato è l'altro.PMan
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