Tra poche ore, in una Turchia che aspira ancora a entrare in Europa, potrebbe nascere sia pure con i crismi formali della legalità, un po' come avvenne per l'avvento al potere di Hitler una nuova dittatura: se nel referendum che si tiene oggi il progetto di Costituzione che l'anno scorso non aveva ottenuto la maggioranza di 2/3 necessaria in Parlamento raccogliesse invece il 50% +1 dei voti popolari, Erdogan diventerebbe infatti il padrone assoluto della Turchia fino al 2029. La nuova Carta concentra tutto nelle sue mani: acquisirebbe il potere di nominare e licenziare i ministri, presentarsi per altri due mandati, scegliere tutti i deputati del suo partito Akp, sciogliere il Parlamento, nominare giudici e comandanti militari e proclamare lo stato di emergenza senza dover rispondere a nessuno. La carica di primo ministro sarebbe abolita, non ci sarebbe più separazione dei poteri e cercare di opporsi al Sultano diventerebbe un'attività ad altissimo rischio.
Già prima di ottenere i poteri che cerca, Erdogan, del resto, ha eliminato o neutralizzato i suoi principali oppositori agendo per decreto. Il carismatico leader del partito curdo Selahattin Demirtas e 13 suoi colleghi sono stati arrestati; dopo il fallito golpe dello scorso anno 40mila alti funzionari, magistrati, generali e professori universitari, sospettati di essere sostenitori dell'arcinemico Fethullah Gülen che sarebbe stato la mente del complotto, sono parimenti finiti dietro le sbarre e altri 130mila sono stati licenziati; migliaia di persone che temono di essere nel mirino della polizia si nascondono o emigrano; la stampa libera è stata da tempo decapitata, con più giornalisti (attualmente 81) in galera che in qualsiasi altra parte del mondo. Dopo avere cercato invano un compromesso con i ribelli curdi del Pkk, il presidente ha rilanciato una feroce campagna militare contro di loro, devastando decine di località nel Sud-est del Paese, come Cizre ridotta a una città fantasma, e arrestando ben 85 sindaci.
Nella campagna elettorale per il referendum, pochi hanno avuto il coraggio di sostenere apertamente le ragioni del «no»: i loro comizi venivano vietati, i loro manifesti strappati, i loro ragionamenti bollati di tradimento. Perfino la propaganda attraverso i social media è stata ostacolata in tutti i modi. Per mobilitare il popolo, Erdogan ha soffiato sul fuoco del nazionalismo, arrivando ad accusare i governi tedesco, olandese e danese di «usare metodi nazisti» solo perché avevano vietato ai suoi ministri di tenere comizi alle comunità turche presenti nei rispettivi Paesi; e, per buona misura, ha anticipato una «conquista islamica» dell'Europa facendo fare cinque figli a ciascuna delle famiglie già residenti in Occidente.
Ciò nonostante, il risultato della consultazione rimane in bilico. Il presidente può contare sull'appoggio della Turchia profonda, che ha beneficiato dei suoi programmi sociali, ha migliorato negli ultimi dieci anni la propria condizione economica e approva il suo disegno di graduale reislamizzazione del Paese dopo la svolta laica di Atatürk e dei militari, mai pienamente accettata nell'Anatolia più legata alle tradizioni. Perseguendo questo disegno, ha riaperto decine di scuole religiose e reso di nuovo legale (nonché vivamente «consigliato») il velo per le donne nei luoghi pubblici. Per racimolare i consensi che gli mancano, ha anche stretto un patto con la dirigenza del partito di estrema destra Mhp, ma senza riuscire a conquistare il consenso della maggioranza dei suoi seguaci. Per contro, gli elettori che voteranno «no» nel tentativo di salvare una democrazia agonizzante sono concentrati nelle parti più europeizzate del Paese, dalla Istanbul borghese alla cosmopolita Smirne (unica città ancora amministrata dall'opposizione): sono gli eredi di Atatürk, gli intellettuali e imprenditori con maggiori legami internazionali, le donne che temono di perdere i loro diritti, i giovani che non vogliono crescere sotto un regime dispotico che considera peccato perfino bere una birra.
Per una serie di ragioni, la svolta della Turchia non ha suscitato finora a livello internazionale l'allarme che merita. La Ue ha concluso con Erdogan uno scellerato patto in base al quale egli trattiene i profughi siriani che vogliono raggiungere l'Europa in cambio di otto miliardi di euro e della promessa di togliere l'obbligo di visto ai turchi e ha paura che egli lo rinneghi e riapra la diga. Gli Stati Uniti ci tengono a che la Turchia rimanga nella Nato e vogliono sottrarla alla tentazione di un'alleanza con Putin. Tutti si rendono conto che, senza la collaborazione turca, la lotta contro l'Isis diventa più difficile, anche se l'ostilità di Ankara nei confronti dei curdi siriani, migliori alleati dell'America, complica non poco le cose.
Le Cancellerie tengono anche conto della difficilissima situazione interna della Turchia, che induce molti turchi a volere un «uomo forte» al comando. Ankara è contemporaneamente impegnata in due guerre, una civile contro il Pkk, una non dichiarata contro il Califfato. Nessun Paese ha avuto nel 2016 un così elevato numero di attentati, opera ora del Pkk, ora dell'Isis, e tutto fa temere che quest'anno aumenteranno ancora. Le purghe seguite al fallito golpe hanno forse smantellato l'apparato gulenista, ma hanno anche aperto enormi vuoti nei ranghi delle Forze armate, della magistratura e della burocrazia che Erdogan fatica a riempire con uomini suoi. Dopo anni di boom, l'economia è ancora in declino, la moneta allo sbando e il turismo, che forniva il grosso della valuta estera, in crisi.
Questa crisi, peraltro, non finirebbe certo anche se domenica vincesse la democrazia, perché il Sultano non è uomo da arrendersi tanto facilmente.
Potrebbe sciogliere di nuovo il Parlamento, accentuare la deriva nazionalista, tentare la strada di una campagna antieuropea. Comunque vada, nei prossimi mesi e forse anni la Turchia rimarrà una polveriera, il cui ingresso nella Ue è addirittura inimmaginabile.
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