Uno, nessuno, centomila Tria. Stretto tra gli incontenibili appetiti propagandistici dei capipartito di maggioranza (flat tax, reddito di cittadinanza, pensioni subito per tutti e chi più ne ha più ne metta) e la crescente pressione degli investitori in fuga dall'Italia gialloverde, il ministro dell'Economia è costretto ad un faticoso equilibrismo.
Una concessione a Salvini oggi, un irrigidimento per i mercati domani. Un cedimento a Di Maio, una rassicurazione all'Unione europea. Consapevole di quel che il suo amico Renato Brunetta aveva sintetizzato in una battuta: «Dicono i broker della City che quando parla Tria si compra, quando parlando gli altri si vende». Il countdown verso la legge di Bilancio è iniziato sotto i colpi dello spread in salita, e il primo consiglio di guerra del governo, venerdì Palazzo Chigi, è stato molto teso. E il comunicato finale del ministro è un arduo tentativo di tenere insieme la «compatibilità con gli obiettivi di bilancio» e «l'avvio delle riforme del programma: flat tax e reddito di cittadinanza». Lega e Cinque Stelle, in campagna elettorale permanente, vogliono uno scalpo da esibire subito ai loro elettori, Tria concede «l'avvio»: qualcosa da chiamare flat tax (o reddito) nella prossima finanziaria ci sarà. Sia pur «compatibilmente» con l'assenza di risorse per finanziarli.
A fine giugno, quando sia Di Maio che Salvini avevano annunciato che quei punti del «contratto» sarebbero stati realizzati già dal 2018, dalla riunione Ecofin Tria li aveva zittiti: «Per il 2018 i giochi sono quasi fatti. Non so a cosa si riferivano, nelle mie discussioni col ministro Di Maio non sono mai entrato in questo dettaglio e non mi è stata mai espressa questa idea, non posso esprimermi né a favore né contro. Ora occorre agire molto rapidamente con interventi di riforma strutturale che non hanno costi». Insomma, niente misure di spesa: tutto rinviato all'anno successivo. Il malumore dei soci di governo era stato rumoroso: «Altro che ministro del cambiamento, è come Padoan», aveva sibilato Salvini.
Il 17 luglio, in audizione al Senato, il ministro aveva di nuovo frenato sulla flat tax: serve una riforma del fisco, ma da realizzare «compatibilmente con gli spazi finanziari», e «mantenendo il necessario percorso di riduzione del debito pubblico». Quanto al reddito di Di Maio, «il costo di un provvedimento non può essere tutto addizionale ma in parte sostitutivo». Dunque in sostanza si tratterà di «trasformare strumenti di protezione sociale già esistenti in altri strumenti». Ossia di cambiare nome alle misure già predisposte e finanziate dai precedenti governi, come Rei e Naspi, senza inventarsi altro. Il 25 luglio, nel question time alla Camera, Tria ha ipotizzato di «iniziare ad implementare gradualmente» la flat tax dalla prossima finanziaria, ma senza toccare i saldi di bilancio. Venerdì ha assicurato che «l'avvio» ci sarà. Ma nel vertice di governo, con leghisti e grillini che minacciavano «o si realizza il contratto o si va a casa», ha spiegato che mancano le risorse.
A meno che, ha ipotizzato, non si decida - per finanziare un primo «assaggio» di flat tax - di non bloccare l'Iva, il cui aumento che scatterà dal 2019 vale più di 12 miliardi. Tanta roba, ma una prospettiva impopolare che terrorizza Cinque Stelle e Lega, che in campagna elettorale ne avevano garantito la totale sterilizzazione.
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