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La uccide e poi si tatua: «Mamma ti amo»

La uccide e poi si tatua: «Mamma ti amo»

Ci sono storie, più di altre, difficili da raccontare. E persino da commentare. Quali parole, quali aggettivi usare? Come descrivere tanto orrore, un distopico presente più terribile di ciò che chiunque vorrebbe mai immaginare? Anche nel più tremendo dei propri incubi. Ci risvegliamo e scopriamo che gli «avatar» non appartengono solo al mondo virtuale. No sono da noi, in mezzo a noi. Possono essere dei mostri, ma non sappiamo che faccia abbiano. A volte sono i nostri figli.

Quando lo si scopre, spesso, è tardi.

La polizia di Cosenza ci ha messo un mese e mezzo per arrestare un ragazzo di 17 anni. Un mostro senza volto. Anzi dal doppio volto. Era lui l'assassino. Il killer della propria madre. Freddo, spietato, lucido. E disgustosamente (eccolo qui almeno un avverbio) cinico. Qualche giorno dopo averla ammazzata si era fatto tatuare su un braccio un'epigrafe che ora suona immorale. Persino più empia del delitto: «Nemmeno la morte ci potrà separare, ti amo mamma».

Già, quella sua mamma musicista che insegnava pianoforte. Patrizia Schettini, aveva 53 anni, viveva con il marito e i due figli (entrambi adottati) in una villetta a Colle degli Ulivi, Donnici, frazione di Cosenza. Era i 1° aprile quando da lì venne chiamata un'ambulanza. E non era uno scherzo. La donna giaceva in fondo alle scale, cadavere. I soccorritori pensarono a una caduta accidentale, a una disgrazia. Ma gli accertamenti della Squadra mobile, raccontano oggi una verità ben diversa. A romperle l'osso del collo non era stato un rovinoso capitombolo. Qualcuno l'aveva uccisa. E chi lo aveva fatto non era entrato in quella villa di nascosto. O rompendo qualche finestra. Tutto era intatto, nulla mancava all'abitazione.

Sul sito Facebook della pianista, rimasto aperto, ancora ieri gli amici scrivevano. Come se lei fosse viva: «Spero non ci sia niente di vero», ha postato qualcuno. Il pensiero di tutti. Nessuno vorrebbe credere a questa, nuova, atroce verità.

Invece di delitto si tratta e il figlio, capace finora di mentire, di simulare un lutto che dolore non era, lo ha confessato. Prima cercando di attenuare le sue colpe, ammettendo che si, lui qualcosa c'entrava ma era stato un incidente. «Abbiamo discusso, l'ho spinta, mamma ha perso l'equilibrio ed caduta giù per la scala». Ore di interrogatori, bugie, contraddizioni. Messo alle strette, alla fine, ha ceduto. Spiegando anche il perché. Un movente tanto banale quanto tragicamente ripetitivo nei nostri giovani killer della generazione digitale: «L'ho uccisa perché mi sgridava troppo». Così, come si può fare in un video-game. Si accende, si «gioca», si spegne.

Eccola la sequenza ricostruita dalla polizia, senza virtuale: il diciassettenne, durante un litigio, mentre in casa non c'era nessuno, avrebbe strangolato la madre a mani nude, poi sbattuta contro un muro rompendole l'osso del collo, infine l'avrebbe presa in braccio portandola vicino alla rampa di scale e fatta volare giù per simulare una caduta accidentale.

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