Fra gli ultrà dell'addio alla Ue: "Basta stranieri"

Rancoroso e nostalgico, il popolo della Brexit: «Ora siamo la discarica di Londra»

Fra gli ultrà dell'addio alla Ue: "Basta stranieri"

Marzio G. Mian

Gravesend (Gran Bretagna)

Già nel tardo pomeriggio invernale il cielo a occidente è rosso. Non è il tramonto poiché piove, ma è la megalopoli che ostenta la sua strapotenza e gli dei non sembrano prenderla bene visto come vanno le cose a Westminister e dintorni; le luci di Londra incombono come una minaccia qui sulla gente dell'estuario, a Tilbury, Gravesend, fino a Withstable che è quasi già Mare del Nord. Dopo la chiusura dei docks sul Tamigi, a partire dagli anni Ottanta, portuali, manovalanze, piccoli commercianti, magazzinieri, precari sono stati cacciati a spintoni a est dell'East End per far posto ai palazzi firmati in vetrocemento, alle penthouse dei russi, ai loft dei broker, ai ristoranti fusion. Così all'estuario, dove sopravvivono fiacchi solo gli ultimi docks di Tilbury, s'è ammassato ora il nuovo popolo dell'abisso, abbruttito, sdentato, rancoroso. «Questa è sempre stata una prospera città operaia», dice con orgoglio proletario Kathleen Turner, che oltre al nome sfoggia anche una capigliatura da diva a incorniciare un volto che fu certamente ammirato dai clienti quando stava dall'altra parte del bancone del Three Daws, il pub cinquecentesco di Gravesend. «Ma ora siamo diventati la discarica di Londra. Solo i ricchi possono vivere a Londra ormai, i nostri figli scappano, lì una pinta costa minimo sei sterline, qui una e mezzo. E così qua arriva di tutto, romeni, serbi, ucraini, bulgari. Dormono in venti in una stanza, lavorano in nero, non pagano le tasse. L'ultima disgrazia è stato il treno veloce, bastano venti minuti per arrivare a Charing Cross. La sera si sente sparare, non esco più sola dopo le otto da cinque anni. Ma anche la polizia ha paura, scrive rapporti ma non fa niente. Sono diventata cattiva? Ma dobbiamo fermare questa invasione, qui abbiamo tutti votato Leave per questo. E per mandare un segnale a Londra».

Gravesend, città del Kent affacciata sul Tamigi, è entrata nelle pagine di Charles Dickens e Joseph Conrad. Era il simbolo dell'Inghilterra imperiale e poi capitalista all'imbocco del Tamigi, il fiume della nazione, ma anche l'apertura dell'isola al mondo. Fino a vent'anni fa, questa città di quasi ottantamila abitanti, prosperava, contava 400 pub per miglio quadrato, era ancora un luogo di «grandi speranze». Era la centrale inglese del contrabbando, ma anche dell'industria cementizia. Ora su High Street, la via pedonale che ne attraversa il centro a due passi dall'imbarcadero, è una processione di disperati di ogni età e provenienza, agli ingressi dei grandi magazzini grovigli di sacchi a pelo e cartoni, sporte di plastica che svolazzano nel vento insieme ai corvi. Un'atmosfera di abbandono che è ancora più impietosa passando dal Kent all'Essex, basta infatti prendere il traghetto e in cinque minuti si è a Tilbury. Lunghe infilate di tralicci dell'alta tensione, schiere di case popolari assiepate tra i gasdotti e i serbatoi del gas liquido. Da qualche anno, tuttavia, sulle banchine è ripresa l'attività del traffico passeggeri, oltre che di cargo e container. I resti abbandonati di un forte ci ricordano che questo era il bastione di Londra, contro le invasioni olandesi e spagnole. Qui Wiston Churcill nel '40 segnò la storia inglese con quel «non ho altro da offrire che sangue, lacrime, fatica e sudore».

Forse Theresa May aveva in mente questi epici precedenti quando ha parlato di «catastrofe per la democrazia» nell'ultimo appello ai parlamentari prima del voto sul suo accordo di Brexit concordato con Bruxelles. «In settant'anni è scomparso tutto. Prima l'Impero e presto, a causa del suicidio della Brexit, si sfalderà anche la Gran Bretagna e Londra diventerà un'isola nell'isola, più che una città stato una città-mondo», dice Norman Davies, il maggiore studioso dell'identità inglese/britannica. Nel suo studio di Oxford sembra spossato dai brutti pensieri: «Sarà un Armageddon», sospira. «Gli inglesi sono avvelenati dal declino e dalla nostalgia. Taking back control ripetono, come se il passato potesse tornare. Rivogliono il mito dell'isola che combatte eroicamente e ce la fa da sola contro tutti, Napoleone, Hitler, l'Europa».

Uno dei pochi luoghi in salute dell'estuario è Withstable, ma ormai più che Tamigi è mare e ci si arriva percorrendo l'M20, l'highway che dal porto di Dover arriva a Londra, quella che secondo le previsioni diventerà la via dell'inferno con il ripristino delle dogane con l'Unione Europea, sarà una teoria di Tir senza fine, il caos. A Whitstable tutto gira intorno alla Oyster Company, farm di ostriche fondata nel 1793, ma già i romani le coltivavano e i pellegrini di Canterbury ne facevano scorta prima d'intraprendere la via di Santiago di Compostela. I ragazzi aspettano le basse maree per andare a girare le sacche e caricare sui quod le ostriche pronte per il mercato.

Circa settanta tonnellate l'anno, il 60% del prodotto spedito in Francia, meglio di qualsiasi certificato di qualità: «Come vendere carbone a New Castle», ride Matthew. Con la Brexit e i dazi sull'export, potrebbe andare tutto in malora e anche Whitstable prendere quel colore ardesia che tinge il declino e la malinconia dell'estuario che muore nel mare, senza più aprirsi al mondo.

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