"La mia corsa sfrenata lontano dal mondo per imparare la vita"

"La mia corsa sfrenata lontano dal mondo per imparare la vita"

Markus Torgeby aveva 23 anni quando decise di andare a vivere da solo. In una tenda, nella foresta dello Jämtland, in Svezia, «a tre ore di cammino dal primo supermercato e dalla prima presenza umana. Un'ora forse, correndo veloce». Correre veloce, del resto, è il suo talento. Lo ha scoperto a dieci anni, quando ancora viveva sulla sua piccola isola vicino a Göteborg, con la madre, il padre e tre fratelli. L'anno prima la madre, ancora giovane, aveva scoperto di avere la sclerosi multipla. È anche per quello che Markus ha iniziato a correre: «Running wild», come si intitola il suo memoir (Utet, pagg. 190, euro 16), il racconto coinvolgente e commovente insieme di come «trovare se stessi correndo nella foresta artica». Non nelle gare, perché quelle, nonostante il talento, Markus le ha abbandonate presto, come racconta al telefono dalla Svezia.

Quando ha capito di essere portato per la corsa?

«A dieci anni feci la prima gara, a dodici la seconda. Dieci km in 38 minuti, abbastanza buono per quell'età, anche perché non mi ero mai allenato. Mi piaceva correre, ma ho iniziato ad allenarmi solo a 16 anni».

Come andò?

«All'inizio facevo molte gare. Dopo solo due settimane dal primo allenamento mi fecero partecipare a una competizione nazionale e arrivai quarto: anche lì, piuttosto bene. Lo adoravo».

Che cosa è successo?

«L'allenatore spingeva troppo, si arrabbiava se in gara sbagliavo, aveva troppe aspettative su di me. Intanto mia madre stava sempre peggio, non riusciva più a muoversi e io e mia sorella dovevamo aiutarla in tutto. Era troppo, per me».

Correre era anche un modo di sfuggire al dolore?

«Sì. Correvo da solo, per me stesso, nella foresta, lungo le scogliere: là fuori non pensavo alla mamma, così malata, e mi sentivo soltanto felice. La fatica, il sangue che pompa, la velocità. Mi sentivo libero, e quindi correvo moltissimo: mi ha aiutato a sopravvivere mentalmente».

Perché si è trasferito nella foresta?

«Sentivo che non c'era una direzione nella mia vita. Avevo lasciato le gare. Non sapevo che cosa fare. Ho pensato che dovessi ritrovarmi in un posto dove fossi soltanto io, senza radio, televisione, telefoni, internet, persone e cose intorno a me. A volte è difficile sentire la propria voce, circondati dalle cose».

Che cosa si aspettava?

«Non ne avevo idea, ma credevo che dentro di me ci fosse una risposta e che, per tirarla fuori, quello fosse il modo migliore. Così ho scelto di vivere in modo estremo. E credo che molti dovrebbero farlo, ogni tanto: stare da soli per un po', nella natura, in silenzio, al freddo».

Perché al freddo?

«Perché quando fa così freddo, come nelle foreste del Nord della Svezia, le cose si impongono da sole; diventano chiare. Se non fai il fuoco, o non corri, ti congeli. Puoi morire. Se fai il fuoco, ti scaldi e sei felice».

È questo che ha imparato nella foresta?

«Sai quello che devi fare. Ed è perfetto. Il fatto di lottare a un livello così essenziale, di vivere così a contatto con i bisogni primari può aiutare la tua testa; questa è la mia esperienza. E poi ho capito che a volte devi stare da solo nella foresta e allenarti a essere felice».

In che senso?

«Tante persone hanno tutto, ma non sono felici. Perché? Nella società compri tante cose, e sei convinto che la vita sia più ricca quante più cose hai. La mia esperienza è opposta. Il cibo ha un gusto buonissimo quando hai fame. Se si gela, è bellissimo infilare i piedi negli stivali caldi. A volte è importante mettersi in situazioni in cui la vita è più bianca o nera. Non ne avevo idea, ma credevo che dentro di me ci fosse una risposta e che, per tirarla fuori, quello fosse il modo migliore. Così ho scelto di vivere in modo estremo».

Era difficile, in concreto, vivere nella foresta?

«Sì. Era il mio lavoro. In inverno a volte c'erano 40 gradi sotto zero. Mi svegliavo con il ghiaccio in faccia. E a quel punto è facile, ovvio quello che devi fare: devi accendere il fuoco. Se no muori. Dicembre, gennaio e febbraio sono i mesi più difficili, se li superi poi arriva la primavera ed è tutto più semplice. Vivevo seguendo le stagioni».

Le manca la vita nella foresta?

«Sì. Con la mia famiglia viviamo nel Nord, non lontano da dove avevo la mia tenda. Viviamo una vita semplice. C'è l'elettricità, ma ci scaldiamo con il fuoco. Abbiamo una casa, ora ho tre figli; ma quando c'era solo la più grande, che oggi ha 12 anni, non avevamo nè acqua nè elettricità».

Senta, ma nella foresta tutto solo non aveva paura?

«Sì. All'inizio ero spaventato, ero là da solo, a tre ore dal primo essere umano. Avevo paura che qualcuno mi seguisse e avevo paura del buio».

E come ha fatto?

«Ho combattuto per quattro mesi, prima di liberarmi della paura del buio. È stato meraviglioso. Mi sentivo libero: se hai un problema, devi affrontarlo. Fa bene avere paura, a volte. Ti fa crescere».

La cosa più importante nella foresta?

«Molti vivono nel futuro, o nel passato: la foresta ti insegna a essere nel presente».

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