
A un mese e mezzo dall'insediamento alla Casa Bianca del presidente eletto Joe Biden, si intensificano le mosse dell'amministrazione Trump tese a ostacolare netti cambi di rotta della politica americana nei principali teatri internazionali, e soprattutto in quello cinese. Il presidente uscente ha annunciato l'inclusione di altre quattro grandi aziende controllate dai militari cinesi e tra queste il colosso dei semiconduttori Smic - nella lista nera del Dipartimento della Difesa statunitense, che già includeva 31 imprese tra cui spiccano i nomi di Huawei e China Telecom. Una mossa a cui il ministero degli Esteri di Pechino ha reagito lamentando senza alcuna autoironia, in nome del suo mercantilismo di Stato, «la violazione dei principi di mercato che danneggia l'immagine degli Stati Uniti». Ma la bordata più rumorosa l'ha sparata John Ratcliffe, direttore uscente dell'intelligence nazionale americana: in un editoriale sul Wall Street Journal ha definito la Repubblica popolare cinese «la più grande minaccia per la democrazia e la libertà in tutto il mondo dalla seconda guerra mondiale», esortando a raccogliere la sfida a livello planetario che Pechino lancia ormai apertamente agli States.
Per Ratcliffe, un fedelissimo di Donald Trump, «questa generazione sarà giudicata dalla sua risposta allo sforzo della Cina di rimodellare il mondo a sua immagine e di sostituire l'America come potenza dominante a livello economico, militare ed economico». Tra gli esempi di aggressione cinese agli Stati Uniti ha enfatizzato la gravità dello spionaggio economico, che agisce rapinando la proprietà intellettuale, copiando la tecnologia per poi prendere il posto con le proprie aziende nel mercato globale di quelle americane defraudate. Aziende, ha accusato Ratcliffe, che in molti casi offrono solo uno strato di mimetizzazione alle attività del partito comunista cinese. Per questo, Washington ha deciso di imporre severe restrizioni per i visti di entrata negli Usa ai membri del Pcc.
A queste incendiarie dichiarazioni si sono aggiunte quelle di John Demers, che guida la divisione per la sicurezza nazionale del Dipartimento della Giustizia. Secondo l'alto funzionario, sono più di mille le spie cinesi che hanno lasciato in fretta e furia gli Stati Uniti dopo l'avvio di indagini ad ampio raggio sullo spionaggio industriale e tecnologico seguite all'arresto di alcuni ricercatori cinesi attivi nelle università americane. Queste persone, secondo Demers, venivano istruite a nascondere la propria affiliazione con il partito comunista cinese o con le forze armate di Pechino e a sottrarre informazioni preziosissime. Come esempio ha citato l'impressionante somiglianza del nuovo bombardiere a lungo raggio cinese H-20 con lo Stealth americano B-20: stiamo parlando di un aereo che potrebbe essere armato con testate nucleari.
Immediate e inevitabili le reazioni sdegnate da Pechino. Dagli Stati Uniti, secondo fonti governative, giungono solo «accuse sensazionalistiche e senza prove». I fatti, afferma Pechino, «hanno ripetutamente dimostrato che siamo un costruttore di pace mondiale, un contributore allo sviluppo globale e un difensore dell'ordine internazionale».
Proteste che si uniscono a quelle per la gestione del caso di Meng Wanzhou: la direttrice finanziaria di Huawei, secondo indiscrezioni di stampa Usa, potrebbe essere liberata dal Canada dove è trattenuta se ammetterà in tribunale di aver compiuto illeciti. Secondo Pechino, Meng è solo un ostaggio innocente della politica anti cinese di Washington, cui il Canada «si presta vergognosamente».