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Gli Usa "tifavano" per il pool E Borrelli riferiva al console

Il ruolo di diplomatici e 007 americani nel nostro Paese tra il '92 e il '94 in un libro sugli archivi segreti degli States

Gli Usa "tifavano" per il pool E Borrelli riferiva al console

Ai tempi di Tangentopoli l'attenzione della segreteria di Stato e dei servizi di intelligence degli Stati Uniti fu particolarmente concentrata nell'assistere alla fine della Prima Repubblica. «L'America si schiera dalla parte dei giudici che danno fiato alle inchieste sulla corruzione... Domina, nei resoconti e nelle informative dell'universo a stelle e strisce, il disinteresse per le sorti del vecchio ceto di governo, prevale nella narrazione sul regime change l'esigenza di guardare avanti, di non attardarsi nella salvaguardia dell'esistente. Un approccio, anche questo, certamente favorito dal mutamento degli equilibri internazionali, e dalla perdita di centralità geopolitica dell'Italia nel più ampio contesto di marginalizzazione del ruolo europeo».

Lo scrive Andrea Spiri nel suo ultimo libro The End 1992-1994 - La fine della prima Repubblica negli Archivi segreti americani (Baldini + Castoldi) dopo aver spulciato decine di rapporti confidenziali dell'epoca ottenuti grazie al Freedom of Information Act, la normativa che regola la declassificazione e l'accesso alle carte ufficiali conservate negli Archivi federali. Si scopre anzi che vi era un filo diretto tra la Procura di Milano e il consolato yankee all'ombra del Duomo, che veniva informato sull'andamento di Mani Pulite, specie nei momenti decisivi. Il 29 aprile 1993, ad esempio, dopo che la Camera aveva respinto le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, il console statunitense Peter Semler incontrò «il numero due dei giudici milanesi» il cui nome è omesso nel rapporto inviato al segretario di Stato americano. Subito dopo quel diniego il Pds di Achille Occhetto aveva imposto il ritiro dal governo dei ministri Augusto Barbera, Luigi Berlinguer, Vincenzo Visco e Francesco Rutelli. E il giudice si lamentava con Semler che «il Pci di Berlinguer non avrebbe mai commesso un errore politico del genere». Non solo. Il magistrato, andando ben oltre le prerogative giudiziarie, riteneva che quella di Botteghe Oscure fosse stata una decisione che «destabilizza l'esecutivo e rischia di trascinare il Paese verso elezioni anticipate». Prospettiva che era «evitare a tutti i costi» anche perché Craxi «verrebbe financo rieletto». E la cosa evidentemente stizziva anche gli americani se si pensa che in un cablogramma del successivo 7 giugno, Daniel Serwer, incaricato d'affari dell'Ambasciata statunitense a Roma, scriveva a Washington dopo le amministrative: «Paradossalmente gli ex comunisti del Pds sono forse gli interlocutori per noi più affidabili in questo frangente storico che vede il declino inesorabile dei partiti con cui abbiamo lavorato a lungo e sui quali abbiamo fatto affidamento». Ma a parlare con gli americani non c'era solo il numero due dei giudici milanesi. C'era forse anche il numero uno degli inquirenti. In un cablogramma del 12 maggio, solo parzialmente desecretato, Semler sintetizza l'incontro con un magistrato, sempre coperto da omissis, che Spiri ritiene di poter individuare nientemeno che nel capo della Procura milanese, Francesco Saverio Borrelli, perché il console faceva riferimento al fatto che il padre della misteriosa toga era la persona che aveva convinto Oscar Luigi Scalfaro a lasciare la magistratura per entrare in politica. E storicamente è risaputo che Scalfaro fu convinto della scelta da Manlio Borrelli, papà di Francesco Saverio. Il magistrato annunciava al diplomatico uno scenario «caratterizzato da un numero di casi ancora maggiore rispetto alle attuali settecento indagini milanesi», lasciando intendere che «ci saranno pochi patteggiamenti» e, per il resto, «verranno celebrati processi lunghi» che «metteranno a dura prova le energie del pool». Ma gli americani guardavano con attenzione anche a ciò che succedeva al Sud, dove i pentiti trascinavano nell'abisso i vertici della Dc. Sicché, quando Giulio Andreotti, accusato di collusione con la mafia, chiese audizione all'ambasciata, partì dopo l'incontro il cablogramma riservato The Accused. Andreotti speaks, datato 2 luglio 1993. Il senatore a vita riteneva che dietro le accuse contro di lui ci fossero «mafiosi americani» e «spezzoni deviati dei Servizi segreti italiani» oltre che dello United States Marshals Service, ovvero l'agenzia federale che sovrintende alle operazioni giudiziarie dall'altra parte dell'Atlantico. Ma non il governo americano. Si lamentava però della diffusione da parte di Washington di un cablogramma molto particolare: «Ha chiesto informazioni in merito alla diffusione da parte del governo americano di un cablogramma del 1984 redatto dal Consolato di Palermo, nel quale veniva riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero stati confermati, allora sia Andreotti che l'intero sistema politico italiano sarebbero finiti nei guai». I diplomatici riconobbero «l'errore», ma anche che gli eventi avevano confermato la profezia. Salvo Lima, in effetti, fu il primo dei delitti che avevano sconvolto l'Italia tra marzo e luglio (così come predetto chirurgicamente da una circolare che allertava il Paese su un pericolo di destabilizzazione orchestrato all'estero) e che frantumò l'immagine del senatore a vita. Il secondo fu la strage di Capaci. Due giorni dopo al Quirinale fu scelto Scalfaro.

Gli analisti del Dipartimento di Stato di Washington avevano scritto: «Le ultime speranze di Andreotti» di salire al Colle «sono svanite con l'assassinio di Falcone, per via dei rapporti che il capo del governo intrattiene con figure sospettate di essere in odore di mafia».

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