Coronavirus

La variante indiana fa paura (ma l'Italia la cerca poco)

Due casi in Veneto, nel Lazio testati i gruppi sikh. Monitoraggio a rilento: "Consorzio fermo da 5 mesi"

La variante indiana fa paura (ma l'Italia la cerca poco)

Salgono a tre i casi di variante indiana individuati ufficialmente in Italia. Il primo a Firenze il mese scorso e da ieri altri due in Veneto. «Abbiamo i primi due pazienti a Bassano con la variante indiana. Si tratta di due cittadini indiani, padre e figlia rientrati dall'India nelle scorse settimane e ora in isolamento», l'annuncio del governatore del Veneto, Luca Zaia. Per il microbiologo Andrea Crisanti questa segnalazione non è che la punta dell'iceberg. «Se la variante indiana di Sars CoV2 è stata trovata in Veneto, vuol dire che è già ampiamente diffusa anche altrove. Perché il nostro Paese ha una bassissima capacità di sorveglianza, non ha la sensibilità necessaria per intercettare tempestivamente le mutazioni», denuncia Crisanti. E a vedere i dati in effetti è difficile dargli torto: il sequenziamento genomico delle varianti nel nostro paese è al palo.

Forse la variante indiana non sarà più preoccupante delle precedenti ma il punto è che occorreva rendere operativo a regime un sistema di sequenziamento delle mutazioni, una mappatura progressiva e aggiornata del coronavirus che in Europa è stata brillantemente realizzata ad esempio dal Regno Unito ma che da noi procede a rilento. A confermarlo Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia che avrebbe dovuto dare vita al Consorzio italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di Sars Cov2. Progetto annunciato a fine dicembre che poi si è arenato con il cambio di governo. Perché è cosi importante individuare precocemente le varianti del coronavirus? Per capire subito se hanno maggiore carica virale, se sono più contagiose e soprattutto se «bucano» la protezione dei vaccini attualmente disponibili. Per l'Organizzazione Mondiale della Sanità sarebbe necessario sequenziare almeno il 5 per cento dei tamponi positivi. Se si apre il database GISAID, l'archivio mondiale di tutte le sequenze del coronavirus Sars Cov2 aggiornato al primo marzo si evidenzia che mentre l'Italia su mille casi di Covid19 analizza il genoma nell'1,87 per cento dei casi, l'Inghilterra sale oltre il 60 per cento. In testa l'Islanda con 688, 19 campioni analizzati su 1000. Nello stesso periodo i sequenziamenti riversati in GISAID dal Regno Unito erano 256.809 mentre dall'Italia ne erano arrivati 5.830.

Anche in questo caso le regioni procedono in modo molto diverso. L'elaborazione di questi dati pubblicata su Twitter da Moreno Colaiacovo mostra come ad esempio l'Abruzzo sia arrivato a sequenziare il 9 per cento dei campioni e la Campania il 7 mentre restano molto indietro Lombardia allo 0,3 e Piemonte non pervenuto. Occorre però riconoscere che nelle ultime settimane il sequenziamento sta accelerando, un po' come sta accadendo per la campagna vaccinale compatibilmente con la disponibilità di dosi. I dati aggiornati a ieri contano circa 20mila genomi condivisi dal nostro paese. Un dato però che comunque resta lontanissimo dai 380.804 del Regno Unito che negli ultimi 30 giorni ha riversato 25.407 genomi contro i 2.278 dell'Italia.

E novità potrebbero arrivare da Latina dove è in corso «una vasta indagine epidemiologica nei confronti della comunità Sikh che opera prevalentemente nel settore agricolo» spiega l'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato in attesa che lo Spallanzani analizzi i test.

Il dilagare della variante in India potrebbe avere ripercussioni negative anche sulla produzione del vaccino di AstraZeneca. Il Serum Institute of India è quello che avrebbe dovuto produrre in quantità massicce il vaccino di Oxford destinandolo anche all'esportazione nei paesi non in grado di produrlo in particolare in Africa.

Ora il rischio è che non riesca a mantenere gli impegni.

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