«Giustizia per Roberta». È l'ultimo post che appare sul profilo Facebook di Fabio Di Lello, del 4 novembre scorso. Una foto della moglie Roberta Smargiassi, uccisa la sera del 1° luglio a un incrocio di Vasto, in Abruzzo, da una Punto che andava troppo veloce e che non aveva rispettato il rosso del semaforo. Roberta era in sella a un motorino, era volata contro lo stesso semaforo e da lì direttamente all'altro mondo. In quella foto però Roberta è bella, ha i capelli ricci spettinati dal vento, e il sorriso di chi non sa che il futuro è un casco che rotola per terra vuoto assieme alla tua vita.
Accanto alla foto di Roberta, Fabio aveva messo, nell'angolo in basso a sinistra, una colomba con il ramoscello di ulivo nel becco. Un segno di pace. Ma ieri Fabio deve aver chiuso in gabbia quella colomba, ed essersi ricordato più del precedente post, un fermo immagine del film Il Gladiatore con il protagonista Massimo Decimo Meridio di spalle su un viottolo di campagna mentre torna dalla guerra e si appresta a scoprire che la sua famiglia è stata massacrata. Un appuntamento con la vendetta.
Quell'appuntamento che ieri ha chiamato Fabio alle 16,30 davanti a un bar di Vasto, il Drink Water di viale Perth. Con lui una pistola. A quell'appuntamento era stato invitato a sua insaputa anche Italo D'Elisa, il ventunenne che quella sera guidava la Punto e che per quell'incidente aveva rimediato un'imputazione per omicidio stradale aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale. Non abbastanza per Fabio. E allora: bum, bum, bum, bum. Quattro colpi da vicino per uccidere quel ragazzo che Fabio voleva guardare negli occhi mentre gli somministrava la condanna a morte che secondo lui meritava, quella e non i torpidi e misericordiosi tempi della giustizia italiana, che gli consentiva di andare zonzo a bordo della stessa Punto con cui gli aveva ammazzato la sua Roberta e che poi aveva fatto riparare dal carrozziere.
Fabio ha sparato, ha ucciso Italo, poi ha chiamato il suo avvocato. Ha raccontato quello che aveva fatto. Ha riattaccato, e ha preso con calma la strada del cimitero. Ha lasciato la semiautomatica in una busta, sulla tomba della sua Roberta, chiudendo il suo personale cerchio di una sceneggiatura a orologeria scritta e riscritta chissà quante volte prima che andasse in scena nel primo giorno di febbraio, esattamente sette mesi dopo il primo giorno di luglio in cui la storia ebbe inizio.
Fabio Di Lello si è consegnato poco dopo ai carabinieri che, avvertiti dall'avvocato, nel frattempo erano piombati nel cimitero della cittadina trovando sulla lapide la busta con l'arma che l'inverno abruzzese aveva già provveduto a far tornare gelida dopo quei quattro colpi. Lì poco dopo è arrivato anche il padre della vittima, che ha urlato: «Me l'avete ucciso, maledetti».
Il plurale, sì. Perché quell'incidente del 1° luglio aveva scosso Vasto. Da mesi non si parlava d'altro nella cittadina abruzzese. Due i partiti, il più agitato quello che solidarizzava con Fabio, calciatore di categoria nelle serie minori regionali, bomber del San Salvo, della Pro Vasto, poi della Virtus Cupello, ma anche fornaio nel panificio di famiglia, il più noto di Vasto. Un movimento di folla che chiedeva giustizia, che manifestava, che aveva preteso quelle indagini, che detestava incontrare tutti i giorni in giro D'Elisa con la sua aria strafottente di ragazzo che nella vita aveva avuto tutto facile. Il 16 luglio una fiaccolata aveva percorso le strade di Vasto partendo proprio dall'incrocio maledetto tra corso Mazzini e via Giulio Cesare.
Roberto e una folla di familiari e amici erano andati fino all'ingresso del tribunale per appendere alle grate del cancello le foto di Roberta. Quel giorno era iniziata la lunga e silenziosa marcia del Gladiatore, conclusa con quattro bum soltanto ieri.
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