Quando la sbarra si alza sono le 6 della mattina. Più o meno la stessa ora in cui il 24 febbraio scorso i carri armati russi travolsero il valico di Kherson divorando la statale 105 e tutto quello che gli si parava davanti. Tre settimane dopo, mentre anche noi attraversiamo quel valico lasciandoci alle spalle la Crimea, poco è cambiato. Gli scheletri delle macchine che quella mattina erano state incautamente parcheggiate ai lati della strada sono ancora lì, schiacciati sul guardrail dalla furia dei carri russi. Ayrton, un soldato dagli occhi a mandorla spedito fin qui dalle sperdute regioni orientali della Buratya, non dimentica quel primo giorno di guerra. «Non sapevo neanch'io che avremmo attaccato sono rimasto veramente sorpreso. Ma alla fine tutto è andato bene. Gli ucraini erano pochissimi, e hanno capito di non aver speranze. Alcuni hanno messo giù le armi e alzato le mani, altri se la sono dati a gambe. Comunque non s'è sentito uno sparo. Qui si è risolta con qualche sorriso e qualche battuta». In verità gli scheletri di un blindato e di un pezzo di artiglieria con le insegne di Kiev abbandonati un paio di chilometri più avanti ricordano che qualche proiettile è volato. Ma poca cosa rispetto alle tragedie di Kiev, Mariupol e Kharkhiv. «E perché avremmo dovuto sparare? - continua il soldato dagli occhi a mandorla - Mica vogliamo ammazzare gli ucraini o distruggere le loro case, vogliamo solo che si mettano d'accordo con noi».
Dall'altra parte non tutti la pensavano come lui. Sulle arcate di cemento sospese sul Mar d'Azov una voragine ricorda il sacrificio di Vitaly Skakun, il Pietro Micca ucraino che quel giorno si fece saltare assieme a mezza arcata di cemento pur di fermare i carri russi. Ma è stato un sacrificio inutile. Il ponte è ancora in piedi mentre carri e soldati sono dilagati nel cuore di Henischek, cittadina portuale di 20mila anime affacciata sull'altro lato del ponte. Così oggi le abitazioni assolutamente intatte di Henischek diventano un simbolo da esibire per «smentire le bugie di chi ci accusa di distruggere le città ucraine». Per gli ucraini la sopravvivenza nel centro occupato è invece un'orgogliosa esibizione di resistenza passiva. Sul municipio, come su palazzi e case private, continuano a sventolare le bandiere gialle e blu dell'Ucraina. E gialla e blu è l'enorme scritta sull'asfalto della piazza municipale con cui si ricorda che «Henischek resta Ucraina». Un orgoglio giallo-blu a cui i russi, e i loro collaboratori locali, cercano di rispondere con dimostrazioni di tolleranza, solidarietà e comprensione. «Il passato non conta - ripete Eduard Kovalenko, un marcantonio di 55 anni, attivista del partito filo-russo Spas finito in galera dal 2017 al 2020 - oggi sono in contatto con i russi per garantire cibo, medicine e tutto quel che serve ai miei concittadini». Ma le sue parole non sembrano convincere in pieno i cittadini in fila davanti al «centro comunitario» organizzato da Kovalenko e dalle autorità militari russe. La calma sospesa e densa d'incognite di strade e viali si trasforma in ostilità aperta nelle affollate stradine del mercato cittadino dove i soldati vigilano sulla folla in fila tra banchi di pesce, carne e verdure. A giudicare dalle merci la città non sembra sull'orlo della fame o della carestia, ma bensì su quello di una crisi di nervi.
Chi non si rifiuta di parlare spiega sbrigativamente di non voler problemi. Molti convinti di esser alle prese un giornalista russo ti mandano immediatamente a quel Paese. «Siete sempre gli stessi vergognatevi» urla una signora mentre un uomo ci fa segno di tornarcene a Mosca. «Prima che arrivaste voi - strilla - stavamo tutti meglio... Viva l'Ucraina!». Qualcuno gli corre incontro e lo festeggia mentre lui, ancor più spavaldo, si rivolge ai soldati russi. «Volete ammazzarmi? - ulula - fatelo pure, fatelo qui, fatelo adesso». Ma tra i più anziani qualcuno scuote la testa.
«Una volta vivevamo tutti assieme e ci volevamo bene - si lamenta Alyona, 86 anni, guardandoci con due occhi azzurri gonfi di stanchezza e lacrime - oggi siamo diventati tutti matti. Ci siamo giocati per sempre la pace».
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