Lettere d'amore

Vi atteggiate a santa? Siete peggio di me

Vi atteggiate a santa? Siete peggio di me

Cara Caterina, ho letto e riletto la vostra accorata e sospirosa «missiva» dal letto di morte e vi confesso, la commozione è stata grande. Amari lucciconi hanno reso madide le mie gote. Anch'io ho un cuore, anche se molti lo mettono in dubbio.

Non posso dimenticare gli anni di ellenica felicità trascorsi insieme. Io vi piacevo, voi mi piacevate: ci amavamo. Poi, l'estasi è finita e non certo per colpa mia.

Ammetto, non vi sono sempre stato fedele, come non sono mai stato fedele a nessuna. Quale uomo, in fondo, è fedele? E quale donna? Quale regina? L'adulterio è un peccato solo per chi non lo commette.

Ma la differenza fra noi, sapete qual è: io, gli adulteri, li ho sempre, o quasi sempre confessati; voi mi avete ingannato anche con troppo spavaldi prelati, e questo non posso perdonarvelo. Avete anche giaciuto con un reverendo gesuita, sottratto agli amplessi di un monaco domenicano che aveva letto tutto Sant'Agostino e chiosato con diligenza lo scanzonato San Tommaso.

Se io non sono mai stato uno stinco di santo, non lo siete stata nemmeno voi. Con una differenza: che io ero il sovrano e quindi la macchia dei vostri adulteri era molto più grave per la mia augusta dignità. Se voi mi avete visto fra le braccia di molte altre donne, di sangue blu, ma anche di sangue plebeo, io vi ho scoperta una volta (e mi è bastata) fra le gambe di un giullare di corte che con la scusa di essere stato scelto come vostro personal trainer, fra un addominale e un pettorale, si lasciava andare a lascive avances.

Nella vostra lettera dolcissima e tenerissima, non avete voluto fare cenno alle debolezze della vostra carne che, all'inizio del nostro matrimonio, fece ribollire come un geiser i miei sensi incandescenti. Che flessioni oscene, che pruriginose carezze, che baci ardenti. Le imprese del giullare mi ferirono a morte nel cuore, che ancora palpitava per voi. Non resistendo a una provocazione così spudorata, mi abbandonai al più deprecabile e meno virile dei vizi: quello solitario.

Poi tutto cambiò. Cominciaste ad atteggiarvi a figlia di Maria, a devotissima ai Santi, ai Cherubini e ai Serafini. E io, dovete riconoscerlo, non osai mai, dico mai, contrastare il vostro misticismo. Al fortunato paggio, certe offese si lavano nel sangue, ho dovuto riservare una sorte atroce, ma equa. Prima, l'ho fatto incarcerare nella Torre di Londra, in una delle celle più fetide e inospitali, poi decapitare. Castigo che, al mio posto, qualunque monarca avrebbe fatto infliggere a un suddito troppo intraprendente e libertino.

Quante schermaglie voluttuose mi avete negato, quanti baci proibiti, tanto di moda alla corte di Versailles ma anche a Cernusco sul Naviglio e Poggibonsi. Volevo da voi un figlio maschio che, a tempo debito, raccogliesse la mia corona e il mio scettro. Me l'avete dato, ma è morto prematuramente, e questo per me è stato non solo un dolore immenso, ma anche spunto di scherno fra i miei colleghi europei. Molte femmine non sono sopravvissute ai vostri travagliati parti e la sola superstite sarà Maria, la figlia che tanto mi raccomandate.

Mi hanno deluso anche le vostre idee religiose. Il vostro cattolicesimo non è stato un ostacolo da poco nella mia lotta contro la Chiesa romana. D'accordo: non volevate divorziare da me, che avevo perso la testa per Anna Bolena. Il Papa si ostinava, in nome di non so quale autorità, a negarmelo e io, mio malgrado, fui costretto a rompere con la Santa Sede e a fondare la Chiesa anglicana, che mi rese tutto più facile. Voi sapete che all'amore non si comanda e per questo non dovevate mettermi i bastoni fra le ruote, come io non ne avrei messi a voi, salvo nel caso che avessi deciso di formalizzare la turpe tresca con il giullare personal trainer.

Ora vi lascio morire in pace, augurandovi quel seggio in Paradiso che credete di meritare e che a me sarà negato. Anna Bolena mi prega di estendervi le sue più sentite condoglianze, non vede l'ora di prendere il vostro posto e io di darglielo.

Vostro Enrico VIII

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