È stato lungo e faticoso, mai tormentato, l'attraversamento del deserto azzurro. Lungo perché da novembre 2017 (eliminazione dal mondiale di Russia dopo lo spareggio a San Siro con la Svezia) a luglio 2021 (finale europeo 2020 a Wembley, Londra) il viaggio ha bruciato infinite energie e risorse e ha testimoniato la vitalità del calcio italiano, in particolare l'abile guida di un ct che si è formato alla scuola migliore, quella dei club vincenti e ambiziosi. L'ultimo miglio non ha aggiunto né sottratto nessuna delle qualità e dei progressi certificati dai 44 mesi utilizzati per lasciare alle spalle le macerie tecniche e morali di Ventura per recuperare il luccichio di talenti rimasti sotto la sabbia. A onore della storia, bisognerà anche ricordare di chi fu la scelta iniziale della federazione a quel tempo commissariata da Malagò, presidente del Coni: Billy Costacurta, incaricato per l'occasione da Fabbricini, puntò prima su Carlo Ancelotti, poi virò su Roberto Mancini che si presentò con idee chiare e rivoluzionarie per quel tempo. Dal primo giorno ci parlò di questa missione che pareva impossibile la testimonianza di Bonucci, uno dei sopravvissuti all'apocalisse precedente. La prima sorpresa coincise con la convocazione numero uno: spuntò in quell'elenco il giovanissimo Nicolò Zaniolo, appena scoperto durante un raduno dell'under 19, e trasferito dall'Inter alla Roma nell'affare Nainggolan. Fu quello l'avviso ai naviganti perché voleva dire fissare la nuova bussola del club Italia alla ricerca di giovanissimi, dediti a un calcio fatto di coraggio e di tecnica.
Tormentata fu solo la caccia a un bomber affidabile. Mancini ha battuto tutte le piste possibili, anche quelle improbabili, offrendo la precedenza a un vecchio sodale (Balotelli) che si presentò con un peso a tre cifre e la solita testa matta. Ha addirittura completato il giro passando da un vecchio bucaniere (Ciccio Caputo del Sassuolo) prima di arrendersi alla solita coppia Immobile-Belotti e alla scoperta di un giovane malandrino dell'area, Giacomo Raspadori. Il passaggio fondamentale, lungo i tornanti del girone di qualificazione non eccessivamente impegnativo, è stato Amsterdam: fu in quell'arena intitolata a Jhoan Cruijff che l'Italia di Mancini prese forma e sostanza dando la paga agli oranje e praticando le loro antiche virtù, palleggio nella metà-campo altrui, triangoli fitti, e mai difesa a ogni costo. I complimenti dei dirigenti olandesi ci fecero capire che eravamo sulla strada giusta sentenziò al ritorno a Roma Gabriele Gravina, eletto presidente e pronto poi a prolungare il contratto del ct oltre l'europeo, guardando al Qatar e al primo mondiale invernale della storia.
Attraversare quel deserto azzurro mentre i club arrancavano in Europa è stato il vero capolavoro di Mancini e dei suoi giovani cavalieri.
È vero: l'Inter di Conte finalista in Europa league era una fiammella di speranza che s'accendeva; è vero la scuola Champions frequentata da Florenzi, Verratti e Jorginho insieme con Chiesa ha accresciuto personalità e conoscenza, ma è stato il lavoro psicologico ai fianchi del gruppo il lavoro decisivo del ct per trasformare un calcio considerato in declino nella realtà di questi giorni.
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