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Visioni opposte

Per capire come i due schieramenti siano agli antipodi come il bianco e il nero basterebbe dare un'occhiata ai programmi economici.

Visioni opposte

Enrico Letta per comodità tende a caratterizzare le visioni diverse tra centrodestra e sinistra (l'espressione «centro» nello schieramento del Pd ha perso di significato) su temi come la democrazia e il sovranismo. Argomenti che per come vengono utilizzati strumentalmente sconfinano nell'ideologia. Invece, per capire come i due schieramenti siano agli antipodi come il bianco e il nero basterebbe dare un'occhiata ai programmi economici. Là davvero ci sono due modi opposti di rapportarsi alla vita e al futuro.


La parola che più definisce il programma della sinistra è «assistenzialismo»: si va da uno stipendio netto in più l'anno, all'integrazione pubblica della retribuzione in favore dei lavoratori a basso reddito; dall'aumento dei beneficiari della quattordicesima, all'incremento delle collezioni pubbliche di arte contemporanea; dai diecimila euro ai diciottenni al contributo per gli affitti di studenti e lavoratori under 35 e tante altre ancora. A queste si aggiungono a buon diritto, visto che fanno parte della coalizione di Letta, le proposte della sinistra-sinistra e dei verdi. Qui la fantasia va davvero al potere: trasporti pubblici gratuiti per tutti, legalizzazione della cannabis, istruzione gratuita dalla culla all'Università, riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario e ancora, ancora Un assistenzialismo di queste proporzioni sarebbe come il pozzo di San Patrizio, richiederebbe costi enormi che ricadrebbero tutti sulle spalle dello Stato. Il che presupporrebbe l'istituzione di una mastodontica patrimoniale a spese dei contribuenti. In poche parole è la filosofia dei seguaci dell'assistenzialismo, dello statalismo d'antan, alleati al «partito del non lavoro» d'ispirazione bertinottiana-grillina, quello che abbraccia l'utopia del lavorare poco e guadagnare molto.
Il paradosso è che chi propugna un programma che richiede un'impennata della spesa pubblica di queste proporzioni rinfaccia al partito della flat tax di non considerare le coperture necessarie per la riduzione delle aliquote fiscali. Siamo al colmo. Ma a parte le polemiche, l'ipotesi della flat tax appare più realistica del libro dei sogni della sinistra: innanzitutto perché può essere graduata, non sarà mai il 15% teorizzato dalla Lega ma può collocarsi qualche punto percentuale su rispetto alla proposta di Forza Italia (invece del 23%, si può arrivare al 25). Insomma, è coniugabile con la congiuntura economica. Inoltre nelle intenzioni dovrebbe mettere in moto un meccanismo virtuoso: i dati del secondo trimestre indicano che l'Italia ha un Pil che cresce ancora il doppio rispetto alla Francia e rispetto allo zero a cui è incollata la Germania. Il problema è tenerlo su. La riduzione della tasse dovrebbe incrementare i consumi, alzare la domanda, favorire un aumento dell'offerta, quindi della produzione e dell'occupazione. Insomma, c'è il pianeta dell'assistenzialismo, dello statalismo, del non-lavoro. E quello del lavoro e dell'iniziativa privata che per garantire anche l'equità punta sul Pil.


Da una parte i sogni, dall'altra un rischio calcolato. In fondo negli anni '80 un certo Ronald Reagan si trovò ad affrontare una situazione simile all'attuale: una forte inflazione, che costringeva la Fed americana ad aumentare i tassi d'interesse sempre più; invece di seguire la via più semplice, quella dell'assistenzialismo, l'allora inquilino della Casa Bianca mise in moto un programma di forte riduzione delle tasse. Un suo consigliere economico, Arthur Laffer, gli dimostrò addirittura che abbassando con senno la pressione fiscale si può aumentare il gettito: tutti sono portati a pagare tasse più giuste. Con questa terapia gli Stati Uniti ripartirono.

È proprio vero, a questo mondo non c'è nulla da inventare.

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