La vita spericolata di Marta da mondina a nobildonna

È stata modella, stilista e regina dei salotti. Amata da Guttuso e Hemingway, ma fu fedele soltanto a se stessa

Tony Damascelli

Ha scelto il giorno giusto: ventinove luglio, santa Marta. Così, quasi in silenzio dopo una esistenza di voci mille e di luci forti, vita vissuta davvero, come pochi sanno e molti immaginano, la grande bellezza quotidiana, dalla risaie smarrite alle risate esplosive, storia di una donna e dell'Italia che è stata con lei, femmina di un altro tempo ma sempre a fianco del tempo che correva e non riusciva a sfuggirle. Non c'è uomo illustre che non l'abbia incontrata, vista, conosciuta, frequentata, amata anche, sbirciata, desiderata. Una fetta grande di questo secolo, la favola di una infanzia senza il lusso che avrebbe poi avvolto la sua adolescenza e maturità, con un cognome che si porta appresso la speranza e la solitudine, Vacondio, con l'accento sulla «i», come i Diotallevi, i Dioguardi, gli Esposito e i Pellegrini ma l'araldica sarebbe cambiata, in modo spettacolare, dopo le bisce e le zanzare che le mordicchiavano le gambe belle, curva lei a raccogliere il riso, tra malinconici canti e umida aria.

Suo padre un casellante ferroviario, sua madre una operaia ma chi poteva allora immaginare che un giorno, mica poi così tanto lontano, sarebbe andata a nozze con un conte e avrebbe fatto scaldare il sangue a nobili e ricconi, poeti e politici, pittori e filosofi, Roma, capitale del piacere, la Sardegna, Cortina e altri cento siti della sua vita narrata anche in un libro appena dato alle stampe, non un testamento ma l'album di parole, corredate dai fotogrammi che racchiudono un'epoca irripetibile (ma perché mai questo gusto di esibire sempre la propria esistenza, nei dettagli, senza il pudore per i figli e non soltanto? Perché ormai tutto è vetrina, sfilata, spettacolo).

La storia di Marta Vacondio, poi e per sempre Marzotto, è quella di una ragazza che trova la lampada di Aladino e il genio le chiede che cosa mai desideri e poi l'accontenta. Dunque la mondina lascia l'aria appiccicosa e passa a fare la sarta, da qui la moda, da qui le sfilate, da qui il fascino di un teatro particolare dove il profumo, la bellezza, il fruscio sono arredi e, in fondo alla passerella, forse c'è la svolta. La svolta è il conte Marzotto che la vede, la spoglia, la sposa. E qui comincia l'avventura, davvero avventurosa, fatta di tutto, con lo stesso sottotitolo, un sorriso largo, quasi da indiana squaw, addobbata di ogni ninnolo che diventava prezioso, anche diamante, ma sulla sua pelle soltanto di giorno, a colazione, non di notte quando le collane sono tutte uguali, mai l'ambra che le portava jella, e, poi, abiti dai colori improbabili ma mai chiassosi e volgari, uno straccio addosso alla Marta diventata una stoffa raffinata.

Non una santa, occhio, non un pesciolino rosso nell'acquario di piranha ma una donna forte, madre di cinque figli (una, Annalisa, scomparsa ferocemente a trentadue anni), amata ma anche amante, traditrice mai di se stessa, Guttuso e Magri, per citare i cognomi più noti, tormenti e passioni di quelle forti dentro il circo tipico della capitale e delle sue dependance, al mare e in montagna, che ci fosse un principe o un vu cumprà, comunque era festa, era allegria, era imprevedibile il tempo da affrontare, cibandosi di ogni ben di Dio (Va con), caviale GGG dai grossi grani grigi e tartufi bianchi senza venature violacee, secondo usi e costumi dei radical chic che i francesi giustamente chiamavano gauche caviar.

Tutta quella roba lì le ronzava attorno e lei era il miele d'acacia, a volte respinta con perfidia come accadde con Agnelli appena sbarcato a Ischia. La Marzotto gli andò incontro, Gianni Agnelli proseguì il cammino con il passo claudicante, infine la signora si affiancò, come presentandosi «Ma Avvocato, sono Marta Marzotto!!!». «Sì, lo so» rispose il signor Fiat, senza rallentare il passo e volgendo lo sguardo diritto dinanzi a sé. Asterischi di pagine corpose, scritte con il pennino d'oro, convissute con i migliori fichi del bigoncio, dico Hemingway, ubriaco fradicio, se può bastare, e ancora Moravia, Visconti, Sciascia, a ciascuno la sua. Narrano, anzi lo narrava lei medesima che Guttuso arrivò a scriverle cinquemila lettere, righe di tormento, vent'anni di sesso e inseguimenti, troncanti, così, come un pittore getta via una tela macchiata. Così il divorzio dal conte consorte, giorni, mesi, anni appiccicosi, come le bisce e le zanzare delle risaie. Le piaceva farsi stirare le lenzuola direttamente sui materassi del suo, dei suoi letti, dovunque giacesse.

Non credo che così sia stato nella stanza milanese della Madonnina, dove ha scelto di spegnere la luce. Senza nemmeno una preghiera, per lei che non aveva scelto la fede. Fine di una storia e inizio di mille racconti sulla mondina dai mille baci.

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