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Il vizio italiano di condannare chi è stato assolto

Nella sua cella a tre letti del carcere di Bollate, Alberto Stasi deve ringraziare per la sua sorte non tanto i giudici della Cassazione che lo hanno condannato in via definitiva per l'omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi quanto giudici ancora più autorevoli

Il vizio italiano di condannare chi è stato assolto

Nella sua cella a tre letti del carcere di Bollate, Alberto Stasi deve ringraziare per la sua sorte non tanto i giudici della Cassazione che lo hanno condannato in via definitiva per l'omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi: quanto giudici ancora più autorevoli. Per l'esattezza, i giudici della Corte Costituzionale che nel 2007 dichiararono illegittima, e cancellarono dal nostro ordinamento, la norma varata l'anno prima dal Parlamento, che rendeva inappellabili le sentenze di assoluzione. Per la Consulta quella norma (varata indubbiamente in un contesto in cui i rapporti tra politica e giustizia erano più complessi di oggi, e gettavano la luce del conflitto di interessi su qualunque tentativo di riforma) violava la parità tra accusa e difesa, lasciando all'imputato condannato la possibilità di ricorrere in appello, ma impedendo al pubblico ministero di impugnare le sentenze di assoluzione.Pur di azzerare la norma, la Corte Costituzionale si dimenticò che a mettere in discussione la parità assoluta tra accusa e difesa è in realtà un principio cardine di ogni ordinamento civile: in dubio pro reo. Se la bilancia delle prove sta in equilibrio, la sentenza deve assolvere: perché è meglio avere un colpevole in libertà, che un innocente in carcere. Concetti ovvi, perfino banali. E sono questi stessi valori di fondo a rendere indigesto il percorso che ha portato alla condanna definitiva di Alberto Stasi. A esprimere dubbi sulla colpevolezza dell'imputato (o, più precisamente: sulla esistenza di prove sufficienti a dimostrarla) sono stati uno dopo l'altro tre giudici in toga: prima Stefano Vitelli, giudice preliminare a Vigevano; poi Anna Conforti e Fabio Tucci, presidente e giudice a latere della Corte d'assise d'appello di Milano che confermò l'assoluzione di Stasi. Giudice esperti, equilibrati, scrupolosi. Furono loro a certificare, nelle loro sentenze, che i dubbi esistevano.E allora, perché non scatta il principio dii civiltà, in dubio pro reo? Semplicemente, perché il nostro ordinamento consente un andirivieni teoricamente infinito di processi e di sentenze, in cui condanne e assoluzioni possono venire impugnate e annullate senza che si arrivi a un punto fermo.

Dal caso Sofri a piazza Fontana, dal delitto di Perugia a quello di Garlasco, le cronache di questi anni sono cariche di casi in cui l'unico prodotto certo dell'andirivieni è il disorientamento inevitabile di quel popolo nel cui nome le sentenze vengono pronunciate. E il cui unico rimedio sarebbe stabilire che se un imputato sceglie di affrontare il processo, e un tribunale stabilisce che non ci sono prove per condannarlo, la faccenda si chiude lì.

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