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Il "whatever it takes" patrimonio globale

Ci sono uomini che diventano proverbi. Altri, però, disegnano nuove traiettorie del pensiero e aprono vie inedite, come capita in montagna

Il "whatever it takes" patrimonio globale

Ci sono uomini che diventano proverbi. Altri, però, disegnano nuove traiettorie del pensiero e aprono vie inedite, come capita in montagna: il whatever it takes coniato da Mario Draghi il 26 luglio 2012 ha salvato l'Europa e rivoluzionato l'economia. Il whatever it takes, costi quel che costi, è ormai nel retropensiero di molti leader e nel loro bagaglio, oltre a essere patrimonio del linguaggio del Continente. Mario Draghi è tutto in quel biglietto da visita: la sua reputazione è il collante della nuova Italia, proiettata verso uno standing europeo e se c'è un rischio è quello che si trasformi un uomo attualissimo nel monumento di se stesso.

Insomma, c'è un Draghi sulla Treccani, con la sua frase simbolo scolpita nell'enciclopedia, ce n'è un altro in versione presidente del consiglio, e poi c'è un terzo Draghi, maneggiato dai big come una bussola che dia la direzione.

«Penso che Mario Draghi sia un economista brillante -afferma dalla Cornovaglia, dove è per il G7, Boris Johnson - è un assoluto piacere ascoltarlo». Draghi introduce con Angela Merkel e Joe Biden la prima sessione dei lavori, con un focus sulla ripartenza dell'economia dopo il Covid. Siamo al passaggio obbligato: «Mario, mi ricordo di essere stato in un seminario qualche anno fa in cui hai salvato l'euro con una frase, il whatever it takes», nota il premier britannico, anche se non ha fermato gli inglesi e la loro secessione, la Brexit che pure ha messo in crisi la costruzione comune. La Gran Bretagna ha strappato, la stima resta intatta. Draghi, spiega Johnson in conferenza stampa, «ci ha fornito una sintesi molto equilibrata di ciò che abbiamo bisogno di fare». Insomma, il capo del governo di unità nazionale è nella biografia della nuova Europa, pur amputata dal bye bye britannico, e sulla linea dell'orizzonte del G7.

Persino i francesi s'inchinano davanti a un personaggio così importante, quasi il padre rifondatore di un'idea che si era annacquata se non smarrita: «Sono fiero dell'Europa - ha detto da Roma nei giorni scorsi il ministro dell'economia Bruno Le Maire, ospite nel corso del III forum ConfindustriaMedef - di come ha risposto alla crisi: un modello per tutti. Il contrario di quanto accaduto nel biennio 2008-2009 quando non eravamo stati capaci di reagire per tempo. Invece, questa volta abbiamo reagito presto e bene, con la scelta per la prima volta di mettere in comune il debito. Abbiamo reinventato il whatever it takes di Draghi», è la chiusa quasi trionfale Le Maire che si mette nella scia del premier tricolore, parametro di una svolta che non promette lacrime e sangue, come fu con la Grecia, ma flessibilità e crescita.

In ogni caso, Draghi fa scuola non solo in Italia, dove i partiti sono in soggezione se non commissariati, ma anche in Cornovaglia e a Roma dove le citazioni e gli omaggi si sprecano. Draghi è sul palco, nell'agenda dei colleghi e nei libri. La miglior partenza per l'Italia che si gioca il futuro con i miliardi del Recovery plan. Un nome che da solo tranquillizza lo spread.

Si spera solo che resti al suo posto a Palazzo Chigi e non sia issato, troppo presto, sul piedistallo del Quirinale.

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