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Xi fulmina Biden su Taiwan "Non giocate con il fuoco"

Il presidente americano: "La nostra posizione non è cambiata. No a tentativi di modificare lo status quo"

Xi fulmina Biden su Taiwan "Non giocate con il fuoco"

Washington. Due ore e diciassette minuti di colloquio. Tanto è durata la telefonata tra Joe Biden e Xi Jinping, la quinta tra i due presidenti, la prima da quattro mesi. Al netto delle traduzioni degli interpreti, un'ora di chiacchierata nella quale i presidenti delle due maggiori potenze mondiali hanno affrontato «con schiettezza» le relazioni tra Washington e Pechino e «le questioni di reciproco interesse». Tema principe, la questione di Taiwan. «Chi gioca con il fuoco si brucia», è il messaggio lanciato da Xi a Biden. Nessun accenno particolare allo scontro diplomatico innescato dall'annunciato viaggio della speaker democratica della Camera Nancy Pelosi sull'isola, considerato da Pechino una «provocazione» che avrebbe delle «conseguenze», come hanno fatto sapere nei giorni scorsi i portavoce del ministero degli Esteri cinese. Ma è chiaro che Xi facesse riferimento proprio a quello.

Il leader cinese ha anche voluto ricordare a Biden «l'errore di calcolo» compiuto nel considerare la Cina un «rivale strategico». In realtà Biden si è spinto molto più in là, al punto da considerare la Cina una vera e propria «minaccia» per la sicurezza Usa, in campo economico e militare, ma evidentemente ricordarlo in una nota ufficiale sarebbe stato troppo anche per Pechino.

Più concilianti i toni del comunicato della Casa Bianca, che ha sottolineato come nel colloquio Biden abbia ribadito che la politica americana nei confronti di Taiwan «non è cambiata». Gli Usa rimangono quindi fedeli alla linea dell'«Unica Cina», ma «si oppongono con forza agli sforzi unilaterali per modificare lo status quo o per minare la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan».

Pur nel mantenere il punto, Washington è sembrata tendere una mano a Xi. Non a caso, Pechino ha tenuto a far sapere che la telefonata tra i due leader è avvenuta «su richiesta di Biden». Gli Stati Uniti sanno bene che il leader cinese è alle prese con una serie di problemi interni, dal rallentamento dell'economia alla crescente impopolarità dovuta ai continui lockdown imposti a causa del Covid, proprio mentre si appresta a chiedere ai funzionari del Partito Comunista nel prossimo Congresso di essere rieletto per la terza volta - mai accaduto nella recente storia cinese - alla guida del Paese.

Tra le questioni aperte c'è quella ucraina. Agli occhi dell'amministrazione Biden, al di là dei toni retorici usati per condannare il rifiuto di Pechino di schierarsi apertamente contro la Russia, non è passato inosservato il fatto che da parte cinese non vi siano stati finora aiuti militari diretti o indiretti a Mosca. La Russia si è dovuta rivolgere all'Iran per tentare di acquisire i preziosi droni da bombardamento, di cui Kiev è invece ampiamente rifornita dall'Occidente. Non è nemmeno passato inosservato il fatto che dall'inizio della guerra la Cina abbia bloccato qualsiasi investimento in Russia, togliendo ulteriore ossigeno alla macchina bellica di Vladimir Putin.

Ecco allora che il viaggio della Pelosi costituisce un ostacolo se non alla normalizzazione dei rapporti tra le due superpotenze, quantomeno al mantenimento dello status quo nello Stretto di Taiwan e in Europa. «Spetta alla speaker decidere», ha detto mercoledì il solito Kirby, a chi gli chiedeva se era vero che la Casa Bianca stesse tentando di convincerla a destinare ad altre latitudini il suo protagonismo internazionale.

Certo è che l'annunciata scorta di jet militari e navi da guerra Usa, per fare da scudo all'aereo della Pelosi diretto a Taiwan, come è stato rivelato in questi giorni, non gioverebbe alle relazioni tra Washington e Pechino e rischierebbe di fare esplodere le tensioni nello Stretto di Taiwan.

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