Il politically correct è peggio dei Cowboy Uccide i pellerossa

Caro Granzotto, sono un po’ amareggiata e molto preoccupata. Andando a prendere mio figlio a scuola e chiedendo dov’era il bidello per tutta risposta una giovane maestra mi rivolse un sorriso di commiserazione. Volli insistere: «Mi scusi, mi sa dire dove posso trovare il bidello?». Altro sorrisino e quindi, col tono col quale ci si rivolge ai tonti: «Personale non docente, signora, si chiama personale non docente. Bidello è un termine fascista». Io non voglio neanche discutere sull’apparentamento fascista della parola bidello, troppo stupido, ma dove andremo a finire con questa moda degli eufemismi politicamente corretti? Cos’è che suona male o offensivo in bidello? Per mia fortuna è un pezzo che non frequento gli ospedali, ma temo che nelle corsie sia tutto un rincorrere infermiere e infermieri chiamando «Paramedico!», «Paramedica!». Lo sa che sono stata rimproverata per aver ninnato il figlio più piccolo alle parole di una stranota ninna nanna che mi cantava anche mia madre e che fa «questo bimbo a chi lo do lo darò all’uomo nero che lo tenga un mese intero...»? Ma cosa dovevo dire? «Lo darò all’uomo di colore»? Mi rassicuri, caro Granzotto: quella del correttese, del linguaggio politicamente corretto, è una delle tante mode importate dall’America che prima o poi si esauriscono o quando sarò morta diranno di me che sono una non vivente?
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Dunque, sabato mi stavo deliziando con la lettura delle critiche cinematografiche che Mariarosa Mancuso pubblica sul Foglio, quand’ecco... Ma mi lasci prima dire, gentile e spiritosa lettrice, che sono (ero) un ammiratore sfegatato di Mariarosa Mancuso. Ella è brava, bella, colta e intelligente, scrive in maniera mirabile e in quanto a cinema straccia (per restare in ambito femminile) quelle due cariatidi (nel senso di elementi a sostegno dell’impalcatura del politicamente corretto nella critica cinematografica) della Natalia Aspesi e della Lietta Tornabuoni. Mancuso si muove in modo magistrale anche nella critica letteraria, dove mena fendenti dolorosissimi ma sempre, però, con un garbo, una levità e proprietà di linguaggio encomiabili. Bene, come avrà capito vado (andavo) matto per Mariarosa Mancuso, spregiatrice del luogo comune, della frase fatta, del pensiero unico e del linguaggio sciatto, tutte cose che me la fanno (me la facevano) sentire sorella. Tutto ciò chiarito, torniamo a sabato scorso: mi stavo lustrando gli occhi leggendo la critica mancusiana al film Nemico pubblico di Michael Mann e tutto procedeva per il meglio. La Mancuso affronta il cinema come Dino Buzzati affrontava il Giro d’Italia, permettendosi delle divagazioni che alla fine t’accorgi essere non divaganti ma attinenti, però basta coi complimenti e veniamo al dunque. Mentre delibavo l’articolo mi imbatto, orribile dictu, in questo periodo: «Della sua infanzia sappiamo solo quel che racconta alla sua ragazza Billie Frechette, mezza francese e mezza nativa americana...». Oh Gesù d’amore acceso! Anche lei, anche il mio (ex) mito! «Nativa americana», forse non la più grande ma certo fra le più grandi bischerrime fesserie della political correctness! Capisco che se avesse scritto «mezza francese e mezza indiana» il lettore avrebbe potuto equivocare, ma aveva a disposizione un vocabolo più che collaudato, bello e nobile: pellerossa.

E invece no, convertendosi al correttese, sposando il fregnacciume politicamente corretto la (ex) luce delle mie stanche pupille mi va a scrivere «nativa americana»! Come una Tornabuoni, come una Aspesi qualsiasi! Che dolore, gentile lettrice, che disdetta. Lo sa perché le ho raccontato questo, vero? Perché se anche quella (ex) divinità di Mariarosa Mancuso sbarella cedendo al lessico politicamente corretto non c’è più speranza. Moriremo e ci diranno non viventi.

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