Pollock, il segno diventa ossessione

Alla Peggy Guggenheim Collection una interessante selezione di opere su carta dell’espressionista astratto americano

Inchiostri speciali che asciugano rapidissimi, penne a feltro, gessetti, matite colorate, pittogrammi, nebulizzatori, matite più sottili e incisive; indelebili. Sono solo alcuni dei materiali da disegno trovati nel 1956 nello studio di Jackson Pollock, The Springs, a Long Island, poco dopo la sua morte. Già dalle scuole superiori Pollock trascorre pomeriggi interi nel pollaio, risistemato e adibito a studio, dell’amico Manuel Tolegian. Si aggira munito di un blocchetto per gli schizzi nella tasca della camicia e, tra il 1930-1935 «durante viaggi in macchina da New York alla California in occasione delle vacanze estive, le fermate per il rifornimento si trasformano talvolta in lunghe sedute di disegno» annota Susan Davidson, curatrice della mostra dedicata ai disegni su carta di Pollock alla Peggy Guggenheim collection di Venezia.
Dell’espressionista astratto, l’esposizione ospitata fino al 18 settembre, raccoglie più di cinquanta opere su carta e intitola programmaticamente «Senza confini, solo bordi». Il suo insegnante alla Art Students League si premurava di segnalare nel giovane Pollock la mancanza di conoscenza dei fondamenti dell’anatomia e della prospettiva per uscirsene in sentenza liquidatoria: «È incapace di abbozzare sequenze logiche». E meno male. Proprio da questo deficit scaturisce la forza dirompente del suo segno. Sarà forse il sentimento di inadeguatezza generato da questa carenza ad orientare il suo ostinato accanimento sulla linea. I compagni di studio, al contrario, si accorgono subito della turbolenza innovativa in quei lavori che tracimano intuito e carica deflagrante; uno di loro ricorda: «Hanno una tremenda energia. Tutti ne parlano». Molti di questi primi lavori sono perduti.
Il disegno lo accompagna in tutta la sua produzione ed offre spunto per ulteriori indagini su un’opera già tanto indagata. La Davidson riferisce di circa 700 lavori su carta eseguiti usando diversi mezzi espressivi tradizionali (matita, inchiostro, acquerello, guazzo, collage) per sfociare nel dripping, la personalissima tecnica di Pollock a pittura «colata». Ogni segno in Pollock emana dal corpo in movimento, quasi espandendosi in forza centripeta. Nell’agire coinvolge e coordina occhio, mano, polso, braccio, l’intero torso. Meccanismo fisico che farà esclamare al surrealista Sebastian Matta: «Questa libertà di Pollock... come andare dalla pittura a mano alla pittura a braccio».
Hans Namuth ha catturato in fotogrammi il furore di quel corpo in azione su grandi superfici stese a terra; talmente vorticanti da impedire una messa a fuoco e fargli dire: «Non dipinge tanto sulla tela quanto nell’aria soprastante». I disegni partecipano di quella stessa temperie corporea, senza perdere di vigore esplosivo; guadagnandoci forse in poeticità e approfondendo l’antica fedeltà alla linea. La mostra articola la produzione in tre blocchi di tempo, e di stile: dal 1935 al 1941 con gli schizzi che faceva mentre era in terapia junghiana per tentare di uscire dall’alcolismo. Il secondo gruppo stilistico data ’42-47 esprimendo contagi surrealisti. Esplosivo il periodo che dal 1947 lo traghetta agli anni Cinquanta. L’astrattismo è spinto alle estreme conseguenze.

Superata la precarietà economica che lo ha sempre assillato, Pollock usa un nuovo tipo di carte giapponesi morbide e docili, una particolare qualità traslucida a fibra porosa che trattiene le colate di colore in modo capillare, quasi sensitivo.

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