Pontelandolfo, i briganti e l’unità d’Italia

Illustre dottore, la sua risposta a una lettera di Rino Cammilleri, a proposito del modello di politica della toponomastica, in uso presso gli enti locali, ha fatto riemergere la tragedia di Pontelandolfo rasa al suolo e incendiata il 14 agosto 1861 dalle truppe piemontesi. «La guerra di conquista del Meridione, quella che per carità di patria, viene ipocritamente definita “lotta al brigantaggio”». Ha scritto e ribadito, così, una verità vera, senza fare sconti e ricorso a perifrasi, alla beffarda, crudele morbidezza di chi preferisce adagiarsi nell’equivoco. Grazie da un erede diretto di quella gente che patì lo stupro, il saccheggio, il fuoco. Attuale e sentita ancora è quella immane tragedia. Lo scorrere degli anni non riesce a sbiadirla. Continuo è l’impegno per farne motivo di riflessione e di monito, soprattutto per i giovani. Il rammarico forte è dettato anche dalla mancata risposta da parte del Presidente della Repubblica alla petizione popolare inoltrata il 20 settembre 1973. Non chiedevamo che la cancellazione della infamante definizione di «terra dei briganti» e la riabilitazione della vittime dell’eccidio. Voglio vivere la speranza che da lei possa venire un intervento per smuovere dall’inerzia gli uffici della presidenza della Repubblica perché riportino, dopo 32 anni, fuori dagli archivi la petizione popolare di Pontelandolfo, per le giuste determinazioni.
Giuseppe Perugini più volte sindaco di Pontelandolfo
Non ho udienza, caro Perugini, presso le alte sfere (e se è per questo, nemmeno presso le basse). Certo, sarebbe un bel gesto, da parte della sfera più alta, depennare dagli atti della storia patria quel «terra di briganti» riferito al Meridione. E nel farlo prendere atto che la questione meridionale principia da lì. Principia dallo spocchioso disprezzo dei conquistatori nei confronti dei conquistati: «Che barbarie!» scriveva Luigi Farini - il consigliere di Cavour, l'ex presidente del Consiglio e più volte ministro - da poco insediatosi a Napoli come luogotenente di Vittorio Emanuele. «Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni sono fior di virtù civile, la provincia napolitana non ha popoli ma mandrie». «In queste regioni» gli faceva eco Nino Bixio «non basta uccidere il nemico, bisogna straziarlo, bruciarlo vivo a fuoco lento... son regioni che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandare i caffoni in Africa a farsi civili». Ancora nei primi del Novecento, negli atti di una inchiesta parlamentare sul Meridione si poteva leggere che «l'inferiorità del contadino meridionale è un prodotto storico. Dato l'ambiente di miseria e di ignoranza in cui ha vissuto per secoli il lavoratore della terra, qual meraviglia se il suo temperamento si è volto al male, se l'acutezza della mente ha degenerato in frode, la forza in violenza, l'amore in libidine?».
Potremmo anche dire con Mao che la guerra non è un pranzo di gala, caro Perugini, e con ciò se non giustificare quanto meno comprendere Pontelandolfo e Casalduni, brutalmente immolate sull'ara dell'unità d'Italia. Ma l'odio, la denigrazione, il pregiudizio che i vari Bixio e Farini, il Parlamento stesso, trasmisero alla pubblica opinione settentrionale dando corso ad una generalizzata intolleranza che lambisce il razzismo, questo no, questo non può essere né compreso né tanto meno giustificato. Eppure ancor oggi, in un Paese come il nostro dove i miti della Resistenza e non solo italiana sono assai coltivati, si seguita a definire la campagna di conquista del '61 «Lotta al brigantaggio» e si può leggere perfino nella popolarissima Garzantina che «Francesco II, scacciato dal trono delle Due Sicilie, riunì un vero esercito di briganti (ca. 80.000 uomini) per riprendere la corona». Nessuno vuole riaprire vecchie ferite, ma concordo con lei, caro Perugini, nel ritenere doveroso dar riscontro a quella petizione popolare. Capisco gli scrupoli delle nostre alte sfere, ma qui non si tratta di revisionismo o di critica antirisorgimentale. Qui si tratta di riparare a un giudizio ingiurioso che da un secolo e mezzo affligge gl'italiani del Mezzogiorno.

Si tratta, insomma, di un atto dovuto.

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