«Il pop è sempre stato federalista»

MilanoGli parli e la piemontesità vien subito fuori senza presentarsi, imperiosa nei toni, negli accenti, nelle idee. Gipo Farassino ha 75 anni e, da padre della canzone torinese grazie a brani come Songon blues o Matilde Pellissero, è anche uno dei maestri della canzone d’autore tout court, quella vera, conficcata nella tradizione e poi germogliata non solo in italiano. «Nella mia musica - dice lui nella sua casa di Agliano d’Asti - ho infilato di tutto, dai suoni sudamericani al rock». Intanto molti lo conoscono perché questo pezzo d’uomo, sciupafemmine ai tempi e capopopolo poi, è stato anche eurodeputato della Lega Nord, uno che nel 1996, a Gian Antonio Stella, ricordò che «probabilmente i “farassini” erano venuti al seguito del Barbarossa». Perciò pochi meglio di lui hanno i galloni per spiegare che, sì, la musica ha bisogno del dialetto, ma le musiche dialettali hanno sempre avuto il loro bel palcoscenico.
Caro Farassino, hanno persino proposto di dedicare una serata del prossimo Festival di Sanremo interamente a questo tipo di canzoni.
«Chi l’ha detto è un pistola. Non capisco proprio, sarebbe come fare una serata di Sanremo con le canzoni in francese».
Forse l’intento è quello di consacrare un federalismo pop.
«Ma il federalismo in musica c’è sempre stato, qui da noi. Se c’è una ricchezza in Italia, in quel paese che Metternich riduceva solo a una “configurazione geografica”, è la canzone popolare, da quella trentina a quella siciliana».
Da consigliere regionale, negli anni Novanta lei è stato il primo a proporre una legge per l’apprendimento scolastico del piemontese (e di conseguenza della musica).
«I dialetti danno il cuore e l’ironia di un popolo. Nel Mestiere di vivere, Cesare Pavese lasciò quella frase, “quand’è che oseremo scrivere in piemontese?”, che la dice lunga. L’insegnamento del piemontese deve diventare obbligatorio per legge. La partecipazioni alle lezioni può essere facoltativa».
Ma scusi, lei faceva politica attiva. Perché ha smesso?
«Ho detto basta perché non avevo lo stomaco per proseguire. Ci ho rimesso pure del denaro, e neanche poco. Per me è stata una penalizzazione: da artista si guadagna molto di più. Prendevo 10 milioni e quattrocentomila lire, ma quattro milioni li davo al partito, 2 milioni andavano via per l’appartamento e via così».
Nel 1994 è stato sconfitto di poco da Franco Debenedetti al Senato. Collegio Torino 1.
«Tutti pensavano vincessi io e difatti all’ultimo momento hanno fatto il “barbatrucco” e gli hanno riempito la lista di servi utili come Zanone o Pozzo ex Msi. Per me fino a quel momento Franco Debenedetti era solo il fratello di quello dell’Olivetti, tra di noi solo buongiorno e buonasera. Risultato: 22mila voti lui, 20mila e 400 io».
Strana la vita: proprio quarant’anni prima lei era un cantante da night.
«Ho fatto dieci anni nei night in tutto il mondo, cantavo genere tradizionale, da Sinatra a Yves Montand. Pensi, sono stato tre anni in Medio Oriente senza mai tornare a casa».
Dopo ha sentito il richiamo ed è tornato.
«Ho rifiutato di andare al Festival di Sanremo ma ho vinto quello di Lugano. E nel ’72, con la Ballata per un eroe, ho fatto un bel can can al Cantagiro».
Poi la politica e infine il ritorno all’arte. Solo a maggio, al Teatro Erba di Torino, per due settimane c’era la fila per il suo spettacolo.
«Mandavano via la gente».
A Torino la veniva a vedere anche Fabrizio De André.
«Ci siamo conosciuti nel ’68».
Quando lei era vicino al Pci.
«Da allora, quando veniva a cantare a Torino, dormiva sempre a casa mia.

Una volta era talmente ubriaco che stette male, ma proprio male, e si sporcò anche la camicia. Così gli diedi una delle mie».
Stessa taglia?
«Più o meno. Gli dissi: me le faccio fare su misura, restituiscimela appena puoi. Ma non me l’ha mai più ridata, accidenti».

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