nostro inviato a Pontida (Bergamo)
«È andata bene, siamo tornati a parlare della nostra identità. Sarei stato solo più diretto nel chiedere a Berlusconi una data per lo stop alla missione in Libia». Quello rilevato da Maroni, a caldo con i suoi appena sceso dal palco, è solo un piccolo neo in una giornata che segna la sua investitura coram populo a successore di Bossi e a candidato premier leghista, quando arriverà il momento. Maroni ha consigliato fino all’ultimo a Umberto di andare giù duro, di mettere spalle al muro il premier, di far capire che la miccia è arrivata in fondo. Bossi ha mediato, impastando un «ultimatum» meno ultimativo, che lascia parecchio spazio di movimento al Cav (a cui aveva anticipato il succo del discorso).
Ma la linea vincente, nella base che a Pontida prende corpo, è quella più intransigente, che ora vede in Maroni il suo portavoce. E che l’ha acclamato con striscioni, cori, volantini che lo vogliono a Palazzo Chigi, urla perché gli fosse data parola dopo Bossi. La Lega di lotta, che torna a intonare la parola «secessione» (facendo luccicare gli occhi di Borghezio con i suoi Volontari verdi), si riconosce in Bobo, che sta conquistando il consenso dosando abilmente silenzi e accelerazioni polemiche (da Saviano alla Libia alla magistratura che «è tutta a favore dei clandestini»), lasciando esporre altri, giocando di sponda e rimbalzando sugli altri la prudenza filo-Cav che è indigesta per le pance leghiste.
È Bossi che deve prendersi qualche fischio quando dice che non è il momento di mollare Berlusconi e andare al voto, perché ora «è il ciclo della sinistra» e non conviene. I ruoli si sono ribaltati, dal Maroni «berlusconiano» del ’94 a fronte di un Bossi ribaltonista, al Bossi prudente con Bobo nei panni di «pasionario» padano. «Basta le bombe, mettiamo fine alla guerra, non ci sono missili intelligenti» ha attaccato Maroni dal palco, molto più duro di Bossi e anche rispetto ai 12 punti del contratto con i padani (che parla di «ridurre i contingenti militari impegnati all’estero», non di ritirarli dalla Libia).
«Siamo un popolo di barbari, ma barbari sognanti» declama Maroni poeticheggiante. E il sogno barbarico è «la Padania libera e indipendente», così riallacciandosi ai cori autonomisti che avevano interrotto Umberto «il moderato».
Dall’altra parte del prato un grande striscione dice «Maroni presidente del Consiglio». Un auspicio dei leghisti di Pontida che significa due cose. Un avviso di sfratto per Berlusconi, e l’indicazione di Bobo come erede. Il ministro rimarca il suo dna leghista, duro e puro rispetto all’altro papabile per Palazzo Chigi, Giulio Tremonti, che manca di «coraggio» (nel riformare il fisco che depreda i contribuenti del Nord), mentre «uno che si chiama come me (Maroni, ndr) come fa a mollare?». Nei sei minuti in cui parla, Bobo torna sul tema della Libia, da cui arrivano gli immigrati «perché non c’è un ministro con cui fare un accordo, c’è la guerra». Nessuno ascolta la Lega di Maroni, non la Nato (che usa i suo mezzi per attaccare ma non per bloccare gli sbarchi), non l’Europa che «non ci aiuta», tanto meno i magistrati che danno ragione ai clandestini. La sicurezza delle città è stata garantita «dai nostri splendidi sindaci», ma quelle spese vanno tolte dal patto di stabilità (altro post-it per Tremonti), un meccanismo che va rivisto del tutto.
Davanti al popolo che lo incorona, Maroni ricorda i successi nell’aggressione alle mafie, cosa che «nessun governo ha fatto come noi». Poi i respingimenti, che «ho inventato io facendo l’accordo con la Tunisia». Ma quando toccherà davvero a lui? Questo dipende da Bossi, che però è tentato dal fare un passo indietro.
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