Politica

Il popolo del videotelefono «A che serve fare il capo se poi si vive tra le pecore?»

Nel casolare malmesso tra macerie e ricotta i clic dei curiosi per una leggenda «noir» finita in frantumi

Marco Lombardo

Per 43 anni se lo sono immaginati in un bunker, o - chissà - magari in America a tirare le fila dei picciotti. Lui era «Il Padrino», non quello da film, ma quello vero, pronto a schiacciare il bottone che doveva far saltare lo Stato, le sue istituzioni, i suoi uomini. Bernardo Provenzano era ormai il Mito, nessuno lo avrebbe mai preso, di lui sarebbero rimasti gli identikit e quella strana traccia che portava in un ospedale a Marsiglia.
Poi, quando arriva il giorno, quando la gente si accalca per vedere un pezzo di storia d’Italia, basta accendere la televisione per restare davanti a uno spettacolo da togliere il fiato. Uno spettacolo che smonta 43 anni di leggende perché il Boss dei Boss insomma faceva ricotta, viveva tra macerie e pecore, non ne poteva più della pasta al forno della moglie. E il «pizzino» che tutti sapevano essere il simbolo del suo comando, ormai gli serviva solo ad ordinare i pannoloni, anche quello usato che aveva addosso con mille euro nascosti per le evenienze.
Ecco, il giorno dopo quel giorno, l’immagine è tutta qui: in quel monumento involontario alle porte di Corleone diventato mèta del popolo col telefonino in mano, un clic e la storia d’Italia finisce in tasca. Ieri il bunker che, vedendolo così, sarebbe potuto entrare di diritto in una parodia di Franco e Ciccio, è stato l’oggetto preferito dei soliti curiosi, gente che ha convissuto con lo stereotipo della Sicilia mafiosa e che adesso si chiede se Provenzano, Lui, abitava davvero qui: «Ma a che serve fare il boss se poi sei costretto a vivere con le pecore, nascosto?».
Già, a che serve fare il boss per ridurti così, per diventare un uomo malato con un foulard fuorimoda al collo che - guardandolo bene - non fa più paura a nessuno. «Avete fatto un grande sbaglio»: questo forse è stato il suo ultimo sussulto di orgoglio, mentre nelle scuole di tutta la regione era già partito il momento del dibattito, delle assemblee d’istituto. Alla fine riassunte in un solenne «tutto qui?».
«Siamo venuti qui per vedere il covo del boss mafioso più noto al mondo - diceva un ragazzo fuori dal cancello di Corleone -, eravamo molto curiosi di capire dove si nascondeva Provenzano. Certo fa riflettere il fatto che tutto intorno ci siano case di villeggiatura e questo casolare non è recintato: chiunque può entrare. Adesso speriamo che questa cittadina non finisca più sui giornali per fatti di mafia». Già, perché Dino Paternostro, segretario della Camera del lavoro locale che un mese fa ha visto andare in fumo la sua auto, ora dice: «Non bisogna commettere l’errore di ritenere che la mafia sia finita con la sconfitta di Provenzano. C’è una rete di fiancheggiatori da aggredire. E bisogna scoprire i rapporti mafia-affari-politica. I volantini trovati ieri nell’ovile di Marino sono indicativi di qualcosa che non va per il verso giusto».
Insomma la mafia esiste ancora, ma il Boss dei Boss non c’è più, disarmato in una fredda cella e alle prese con la sua prostata incontinente. La mafia esiste, ma il suo capo è battuto e la paura adesso è passata.

Forse.

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