«Portiamo in città i sapori dell’Etiopia»

«All’arrivo in Italia ero depressa, non riuscivo a inserirmi e avevo una grande nostalgia di casa mia »

Marina Gersony

Quella che stiamo per raccontarvi è una storia di generazioni, una storia d'amore con la «a» maiuscola e infine una storia di integrazione riuscita. Tutto ha inizio nel lontano 1935, quando Paolo Lorenzetti, abitante in corso Genova 1, viene convocato ad arruolarsi nell'esercito italiano, pronto a conquistare l'Etiopia (allora si chiamava Abissinia). A Kobbo, piccolo villaggio, il soldato conosce una ragazza etiope o meglio colei che presto sarebbe diventata la madre dei suoi figli. Uno di loro si chiama Alberto, un bel ragazzo che cresce in un'atmosfera serena e studia nelle scuole italiane. Come molti anni prima suo padre, raggiunta la maggiore età, anche lui è chiamato a svolgere il servizio di leva, ma al contrario del genitore dall'Etiopia deve recarsi in Italia. È così che nel 1975 il giovanotto approda a Milano, quella città magnificata dal padre fin da quando era bambino. Tredici mesi li passa a Casale Monferrato in caserma: «Un giorno un colonnello mi disse: «Alberto, se adesso scoppiasse una guerra contro l'Abissinia verso chi punteresti il fucile?». Gli risposi d'istinto: «Contro di lei naturalmente». Lui capì la mia reazione e da quel giorno sono entrato nelle sue grazie». Dopo il servizio militare, Alberto fa tutti i mestieri possibili: assicuratore, operaio, impiegato e il carpentiere in Libia. Nel frattempo decide che è tempo di accasarsi: ma dove trovare la donna ideale? Durante una vacanza in Etiopia conosce la bella Saba di Addis Abeba, studentessa che porta il nome della mitica regina; quella che gli arabi chiamavano Bilquis, gli etiopi Macheda, gli ebrei e i cristiani Saba. È amore a prima vista: i due si sposano, vengono a vivere a Milano e mettono al mondo due figli: Nelson che oggi ha ventun'anni e studia all'università e Peter di tredici. Per Saba i primi tempi sono stati duri: «Ero depressa, non riuscivo a integrarmi e avevo nostalgia di casa. Ricordo che ho sofferto molto». Ma la giovane donna è forte e si riprende. Lavora come colf, domestica e badante giorno e notte senza risparmiarsi e nello stesso tempo è di grande sostegno alla famiglia. In casa si parla milanese, amarico, eritreo e italiano come in una perfetta famiglia globale. Nel 1993 Alberto decide che la vita di subalterno non fa per lui, in fondo è uno spirito libero così, messo da parte un gruzzolo, prende la licenza di taxista: «L'ho pagata pro-fu-ma-ta-men-te - scandisce le parole strizzando l'occhio -. Un mestiere faticoso, ma ricco di soddisfazioni». Negli anni a seguire lui e Saba lavorano senza sosta per risparmiare «el dané». Entrambi hanno un sogno nel cassetto: aprire un ristorante. E ci riescono. Lui continua a fare il taxista («bisogna ben pagare il mutuo»), dà una mano al cuoco e Saba si occupa di tutto il resto. Il locale (Via Lazzaro Palazzi, alle spalle di Corso Buenos Aires) è nuovo di zecca, ha i colori tenui del cielo e della terra, acquerelli damascati con rami e foglie delicate. Qui tutto è lindo, sobrio e pacato, con melodie di sottofondo afrodolci e si mangia davvero bene: cucina etiope ed eritrea a base di zighini, ingera, spriss per concludere con un ottimo té alla cannella (ricetta top secret).

Il tutto sotto l'occhio vigile di questa calorosa coppia: una happy family in una Milano sempre più melting pot. «E pensare che quando arrivai più di vent'anni fa tutti mi guardavano come una curiosità esotica. Oggi nessuno ci fa più caso se uno è straniero o no». Parola della bella e instancabile Saba.

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