
Direttore artistico della 53ª Biennale Teatro di Venezia - in scena da domani (31 maggio) fino al 15 giugno - con il tema Theatre is Body - Body is Poetry, alla soglia dei 70 anni Willem Dafoe è uno degli attori americani più versatili del cinema contemporaneo. Quattro nomination agli Oscar per Platoon, L'ombra del vampiro, Un sogno chiamato Florida e Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità, ha interpretato oltre 100 ruoli dal debutto in I cancelli del cielo (1980). Dal Green Goblin in Spider-Man a Van Gogh, dall'horror d'autore al cinema mainstream solo nel 2025 Nosferatu di Eggers e The Legend of Ochi - ha collaborato con maestri come Lynch, von Trier, Scorsese. Membro fondatore del Wooster Group, uno dei teatri che hanno cambiato la scena sperimentale di New York, mantiene da 40 anni un piede nell'avanguardia teatrale e nel gennaio 2024 ha ricevuto la stella sulla Hollywood Walk of Fame. Il 6 giugno Dafoe, insieme all'attrice italiana Simonetta Solder, presenta in Biennale anche un suo lavoro, No Title, con cui rende omaggio al regista e drammaturgo Richard Foreman, scomparso lo scorso gennaio. Si tratta di una performance sperimentale basata su un testo non datato scritto a mano da Foreman su una serie di 640 cartoncini 3×5, destinati a essere letti in ordine sparso da uno o più esecutori.
In No Title ci porta a meditare sulla mente di Richard Foreman: può descrivere il suo rapporto con lui e come questo la guida oggi?
«Sono sempre stato ispirato, stimolato, sfidato dai suoi spettacoli. Ho avuto la fortuna di lavorare con lui. Era un pensatore originale e molto difficile da inquadrare. Esigente ma giocoso. Non gli piaceva niente che fosse rilassato, diceva sempre: Recita come se ci fosse del vetro rotto che copre il palcoscenico. Quando credevo che una performance fosse andata bene, lui era in preda alla disperazione. Quando ero deluso, lui pensava che fosse stata coinvolgente».
Può darci un'anteprima del contenuto di No Title? Temi, citazioni o frasi che più l'hanno toccata?
«Alcune riflessioni sono filosofiche, altre espressioni comuni, altre ancora senza senso, altre poetiche. Tutti sono frammenti, ordini, frasi inventate: Il domani arriva due volte, Mai essere il primo, Pollo arrosto Gnammmm, Tutto può essere cancellato».
Quando legge i cartoncini di Foreman senza sapere quale sarà il prossimo, sta pensando con la voce di un altro: è ancora la sua performance o lei diventa un «medium»?
«Il mio approccio cambia, ma in generale cerco solo di essere un medium, leggere la scheda con chiarezza e quell'impulso che colora il mio rapporto con la frase. Il dialogo tra i due lettori non può essere forzato: accade per coincidenza. In modo strano e perlopiù fortuito si vengono a creare conversazioni prive di una intenzione specifica e questo ci offre spunti interessanti sul linguaggio».
Che cosa significa oggi fare teatro radicale o cinema radicale e a che tipo di pubblico ci si rivolge?
«Quello che so è che mi piace essere messo in uno stato di meraviglia e di curiosità quando faccio teatro o guardo teatro. Mettere davvero in discussione che cosa sia, che cosa era e che cosa potrebbe essere. Sfidare le percezioni delle persone sulla natura delle cose è un atto radicale in un mondo transazionale dove le persone cercano la distrazione per esserne confortati».
Ha passato quarant'anni nel cinema, anche mainstream, mantenendo sempre un piede nel teatro sperimentale. Hollywood ha mai «contaminato» il suo spirito d'avanguardia?
«Sono sicuro che in qualche modo lo abbia fatto. Ma sono anche consapevole di quanto facilmente arrivi questo tipo di corruzione. Cerco allora di mescolare le cose, così quando mi ci avvicino è come se partissi sempre da zero, il che rende impossibile commerciare su una posizione raggiunta e consolidata a cui ti aggrappi. Cerco di essere flessibile, di mettermi al servizio degli altri e non del mio punto di vista».
Il Wooster Group negli anni Ottanta decostruiva i classici americani attraverso tecnologia e frammentazione. Oggi intelligenza artificiale e deepfake possono creare attori virtuali: può l'avanguardia umana essere ancora un laboratorio del futuro?
«Il Wooster Group ha abbracciato la tecnologia, ma questo non ha sminuito i performer: si tratta di un aiuto pratico. Si stanno sviluppando tecniche di performance che accompagnano gli attori con una precisione tecnica che conferisce loro una super presenza, un tipo di concentrazione che li aiuta a mantenere le azioni pulite, potenti, non intasate da pose autoreferenziali ed emozioni mosce».
«Il corpo è poesia» dice la seconda parte del titolo che ha scelto per questa Biennale: quale dei suoi personaggi, a teatro e al cinema, considera il più «poetico»?
«Suppongo quello che mi è meno familiare. Vincent Van Gogh, che ho interpretato, aveva un modo molto spirituale e poetico di vedere la natura delle cose e questo certamente mi è rimasto dentro. Ma non ho personaggi preferiti, cerco di non guardarmi indietro o confrontare ruoli: è una cosa che mi lega al passato in un modo non è utile al mio lavoro».
Come direttore artistico di Biennale Teatro, seleziona lavori dell'avanguardia teatrale. Ma può l'avanguardia essere istituzionalizzata senza perdere la sua forza sovversiva?
«Io non sono un'istituzione: la mia selezione riflette la mia esperienza e quello che penso sia unico e potente nel teatro.
Per quest'anno ho scelto di portare a Biennale persone con cui ho lavorato, quelle che ho ammirato, il lavoro che ho conosciuto. Non volevo andare a fare shopping tra le proposte e nessuno ha usato la parola avanguardia per indirizzare le mie scelte».