L’ultimo attore della sua scuderia apparso in un film è morto due mesi dopo che la protagonista lo aveva baciato in bocca. Povero Leon. Di certo ignorava che la cavità orale degli umani, come li chiama il suo addolorato impresario Massimo Perla, ospita molti più germi patogeni di quelli che si annidano tra le fauci di un cane. L’emozione e l’età, 12 anni, devono aver fatto il resto, nonostante il referto del veterinario parli di pregresso tumore alla vescica. È stato un incidente, ma, dati i tempi, potrebbe diventare presto un reato: atti di libidine su non umani. «’Na botta da pazza», commenta Perla. Nemmeno Abel Ferrara, il trasgressivo regista, aveva previsto nel copione che Asia Argento, figlia di tanto padre, intrecciasse la sua lingua con quella del rottweiler di Perla in una scena di Go Go Tales, rischiando fra l’altro di perdere la faccia. E non metaforicamente: a morsi. Grande scandalo sui giornali. Al Festival di Cannes il bacio della bella, diciamo così, alla bestia ha fatto dimenticare ai critici persino la trama, già contorta di suo: «Non l’ho capita manco io che stavo sul set a Cinecittà», confessa l’agente di Leon.
È andato tutto bene solo perché i cani sanno recitare meglio degli attori, a differenza di certi attori che recitano da cani. Di suoi, Perla ne ha 16, uno più bravo dell’altro. Altri 200 li ammaestra, con l’aiuto di 10 istruttori cinofili. Hanno già girato 500 tra film, fiction e programmi televisivi e almeno 200 spot. C’è Tomak, il golden retriever (Il mio miglior nemico di Carlo Verdone). C’è Orlando, il terranova (Manuale d’amore di Giovanni Veronesi e Il commissario Montalbano). C’è Agata, la cocker (Il generale Dalla Chiesa con Giancarlo Giannini e Stefania Sandrelli). C’è Ettore, il dogue de Bordeaux (parlava in napoletano con Sofia Loren nella pubblicità della Tim). C’è Kumash, il jack russell (addentava le natiche del passante goloso di mele Melinda). C’è Sheeba, la dobermann (Linda e il brigadiere con Claudia Koll e Nino Manfredi). C’è Dakota, il flat coated retriever (C’è posta per te). C’è Wizzie, la meticcia (Il grande cocomero di Francesca Archibugi). C’è Eileene, la border collie blue merle (ha lavorato nell’unico spot girato in vita sua da Francis Ford Coppola, il regista del Padrino e di Apocalypse now).
Poi c’era Washita, la golden di Ricordati di me e L’ultimo bacio di Gabriele Muccino, e soprattutto c’era lui, il leggendario Shonik, 70 film nel palmarès, morto sei anni fa, il border collie diventato famoso grazie alla pipì sulla cabina telefonica di Infostrada, al serial Il maresciallo Rocca con Gigi Proietti, alle comparsate con Fiorello in Stasera pago io e con le veline di Striscia la notizia, i cui geni sopravvivono in Miwok, che vedremo sugli schermi dal 14 febbraio in Parlami d’amore di Silvio Muccino, e negli altri cuccioli che Perla ha ceduto «a prezzo politico» a Fiorello, all’imprenditore Diego Della Valle e al direttore del Tg5, Clemente Mimun. «Dodici anni insieme, giorno e notte: non posso dire la stessa cosa nemmeno per le mie tre compagne e per i miei due figli. Ecco, questo è Shonik con E.T. disegnato da Carlo Rambaldi, l’inventore dell’extraterrestre di Steven Spielberg», stacca un dipinto dalla parete, «ma tu guarda che ce stava sotto er quadro: un geco in letargo!», riappende subito per non disturbare il rettile, dando prova di amore sconfinato per gli animali.
Cresciuto con i cani sciolti del ’68 («ero un bambino», si giustifica oggi, «in Potere operaio avevo per maestri Oreste Scalzone, Franco Piperno e Andrea Leoni, mai spaccato teste, però: al massimo facevo volantinaggio e praticavo l’autoriduzione delle bollette»), oggi l’addestratore si trova a suo agio con i cani irreggimentati dei Vip della seconda Repubblica, un abbaio bipartisan che va da Francesco Storace a Claudio Velardi, passando per Sabrina Ferilli, Luca Zingaretti, Carlo Vanzina, Francesca Neri, Claudio Amendola, Paola Perego, Antonella Clerici, Tullio Solenghi, Paola Saluzzi. Dopo 20 minuti che avevo messo piede nel suo dog training centre Indiana Kayowa, piazzato strategicamente fra Parioli, Collina Fleming e Cassia, dove abita la Roma che conta, era già riuscito a presentarmi Amina Fiorillo, moglie di Maurizio Gasparri, ex ministro delle Comunicazioni, e l’attore Beppe Fiorello, fratello dello showman Rosario, alle prese con una bassottina di due mesi. Ma avrei potuto benissimo imbattermi anche in Massimo D’Alema: è stato Perla a dressare l’allora presidente del Consiglio al modo giusto di relazionarsi con la labrador Lulù, «perché questo io faccio, educo i proprietari dei cani, non i cani».
Ho letto che D’Alema ha passato i suoi guai la prima volta che ha provato a far salire la cagnolina sull’Ikarus: gli è scappata via.
«È ben per quello che s’è rivolto a me. Lulù aveva paura del ponticello oscillante fra molo e barca. D’Alema ha dovuto frequentare le lezioni con la labrador per un paio di mesi, un appuntamento ogni dieci giorni. È stato Maurizio Costanzo a mandarlo qui».
Costanzo anni fa mi ha raccontato che portava a spasso i bassotti di Curzio Malaparte e gli dava da mangiare solo specialità tedesche perché, essendo nati in Germania, lo scrittore toscano riteneva che dovessero essere nutriti con cibi della terra d’origine.
«Costanzo stravede per i bassotti. Ne ha due, più un pastore tedesco. Ha perso da poco il bracco italiano. Cassio, un bassotto a pelo raso, lo portai io da Milano come regalo di Maria De Filippi al marito per il 60° compleanno».
In che modo è diventato istruttore cinofilo?
«Sono nato nel 1956 a Roma. Da bambino rubavo i cani ai parenti e ai vicini per studiarne il comportamento. Mio padre era primo pasticciere dell’Alemagna al caffè Aragno di via del Corso. Di animali non voleva saperne. Approfittando del suo ricovero in ospedale per una peritonite, portai a casa un pastore tedesco, Kochiss. Papà fu dimesso. Pensavo che avrebbe accettato il fatto compiuto. Macché, mi fece un cazziatone: “O tu o il cane. Oppure fuori tutt’e due”. Ce ne andammo tutt’e due».
Dove?
«In una mansardina, a 220.000 lire al mese. Frequentavo architettura a Valle Giulia, terzo anno, dieci esami già dati. Per mantenermi, mollai l’università. Come dog sitter guadagnavo 20.000 lire in meno dell’affitto che dovevo pagare. Con due amici portavo ogni giorno col furgone 60 cani a sgambettare a Villa Borghese. Ha idea di che cosa significhi far stare 30 cani per volta su un Fiat 238? Ho imparato a morsi».
Come ha fatto?
«Ho decrittato il loro linguaggio. I cani comunicano con l’abbaio. Ma se qualcuno sostiene che il suo Fido dice “mamma”, bisogna farlo arrestare oppure portarlo da uno psicologo abbastanza bravo, anzi proprio bravo. I cani non parlano».
Ora suo padre sarà orgoglioso di lei.
«È morto. Gli devo tutto. Se non mi avesse messo i bastoni fra le ruote, non sarei mai diventato ciò che sono. Un giorno s’accorse che mia madre mi lavava i panni di nascosto. “Eh, no”, s’infuriò, “se vuol essere indipendente, dev’esserlo fino in fondo”. Tolse la mia biancheria dalla lavatrice e la gettò per tutta la casa».
Chi l’ha chiamata a Cinecittà?
«Fino a trent’anni fa sul set s’aggiravano gli animalari, che procuravano tutto ciò che serviva alle esigenze di copione, dalle formiche agli elefanti. Il regista Andrej Tarkovskij non riusciva a trovare un cane dal pelo particolare per Nostalghia, poi premiato al Festival di Cannes. Mi presentai col mio Zoi, un pastore focato bianco e nero. Appena lo vide, esclamò: “Voglio questo”. Era il primo film che Tarkovskij girava fuori dalla Russia. Se il cielo non gli pareva del colore che aveva in mente, rinviava il ciak all’indomani: lui era abituato ai tempi della cinematografia sovietica sovvenzionata dallo Stato. La prima scena con Domiziana Giordano a Bagno Vignoni, presso la piscina di Santa Caterina da Siena, fu un disastro a causa dell’inesperienza dell’attrice. “Ahò, me sa che ’sto film non lo finimo”, scrollavano la testa i macchinisti. Tarkovskij prese la Giordano sotto braccio e se la portò in giro per il paese a spiegarle la parte. E da quel giorno così ogni mattina, per almeno un’ora. Non ho mai visto nessun altro regista fare così».
Non è una crudeltà costringere un animale a recitare?
«Il cane addestrato è l’unico animale a non subire stress. Sul set fa quello che è abituato a fare nella vita di tutti i giorni».
Fare lingua in bocca con un’attrice non mi pare un’attività quotidiana per un rottweiler.
«Nel suo linguaggio di per sé non è una mancanza di rispetto. Nel nostro linguaggio sì, vuol dire un’altra cosa, diventa una forzatura. Ma sul set siamo solo noi umani ad andare in crisi. Per C’era un castello con 40 cani di Duccio Tessari sono arrivato sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Un anno di riprese con 62 cani al seguito fra Carsoli, Arsoli, Capalbio e Roma».
Erano 40 o 62?
«Ci vogliono sempre le riserve. Il pastore tedesco della serie Il commissario Rex non è uno, sono tre, ma non si deve dire».
Torniamo a Duccio Tessari.
«Il regista inizialmente s’era affidato all’animalaro che aveva fornito gli esemplari per ben 17 film della serie di Zanna Bianca. Non funzionò. Fui convocato in seconda battuta. Dopo qualche giorno la troupe era sbalordita: “Nun se po’ lassà a casa li attori e far tutto co’ li cani?”».
Talvolta non è una battuta.
«Non lo è quasi mai. Il regista Antonio Bonifacio, sul set del serial Turbo per Raidue, diceva al protagonista Roberto Farnesi, allora appena ventenne: “Tu segui Shonik che così impari”».
Super Shonik.
«In Cari fottutissimi amici a un certo punto Paolo Villaggio faceva pipì con i compagni di viaggio. Chiesi a Mario Monicelli: la facciamo fare anche a Shonik? “Non diciamo stronzate”, sbuffò il regista. Sul set c’era Sergio Strizzi, pace all’anima sua, il più grande fotografo di scena che il cinema abbia avuto, uno che aveva cominciato a lavorare con Vittorio De Sica: “Perla, se il tuo cane fa pipì insieme con Villaggio e gli altri, giuro che quello diventa il manifesto del film”. Non solo Shonik la fece col gruppetto, ma si girò pure verso Strizzi, come testimonia la foto nella locandina, rimasta famosa. Monicelli non credeva ai suoi occhi: “Ma tu guarda ’sto cacchio di Perla che cosa s’è inventato!”».
Che trucco s’era inventato?
«Banalissimo. Prima avevo urinato io sul rovo dove volevo che s’indirizzasse Shonik. Per istinto i cani coprono sempre le tracce altrui».
Mi sta dicendo che per obbligare Shonik a scegliere tra le due cabine telefoniche nello spot di Infostrada ha fatto la stessa cosa?
«Esatto. Un po’ di pipì sulla cabina rossa, una passata di biscotto su quella blu. Nessun cane occulterebbe l’odore del cibo».
Da dove arrivava questo prodigio della natura?
«Era nato nel 1989 in un allevamento vicino a Londra. Aspettai un anno per averlo. Dei border collie si sapeva poco o nulla in Italia. Aveva capacità straordinarie. Il segreto per ottenere un campione come Shonik è riuscire a fargli acquistare fin dai primi mesi di vita una fiducia illimitata negli umani. Devi portarlo in bici, in auto, in treno, in aereo, al ristorante, al cinema, nel deserto, in modo che non abbia più paura di nulla».
Quanto può guadagnare un cane sul set?
«Quanto può far guadagnare, piuttosto. Un pomeriggio stavo girando a Roma con Anne Archer, l’attrice di Attrazione fatale. Mi chiamano dal Lussemburgo: “Ce la fa a essere qui con uno dei suoi cani per le 21.30?”. Guardo l’orologio: le 17. M’imbarco con Shonik. Arrivo sul set in un castello: Russell Mulcahy, il regista di Highlander, non riusciva a girare una scena dentro un tunnel. Ci aveva provato con cani tedeschi, olandesi, danesi. Niente. I produttori ci rimettevano 150.000 dollari al giorno. Tranquillizzai Mulcahy: con Shonik la facciamo in 20 minuti. Negli occhi increduli gli lessi la frase: “I soliti italiani!”. In un quarto d’ora era fatta».
Non mi ha risposto.
«Shonik guadagnava tanta pizza bianca. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per la pizza bianca alla romana».
Non sia evasivo.
«Da 200 a 5.000 euro al giorno. Dipende da dove vado e dall’azione richiesta al cane».
I suoi animali li fa mangiare a tavola come Oscar, il molosso da 55 chili di Orietta Berti, fotografato da Chi con le zampe appoggiate sulla tovaglia candida e il piatto di porcellana davanti?
«No. Mangiano dopo di me perché hanno la loro dignità e i loro orari. Non sopporto i cani che elemosinano il cibo».
Gianni Agnelli dava da mangiare a Balto, il suo husky più amato, con la stessa forchetta che usava lui. «A tavola ho visto taluni commensali dell’Avvocato fare altrettanto in un empito di servilismo», mi ha detto Jas Gawronski.
«A me è capitato che, in mancanza della ciotola, prestassi al cane il mio piatto. Ma dopo che ci avevo finito di mangiare io».
Roma è tristemente famosa per l’orribile delitto compiuto da Pietro De Negri, detto Er Canaro.
«Ma quello era un toelettatore, mica un addestratore. Un canaro, appunto. Chi ama i cani non farebbe mai del male a una persona. Sull’esempio di suor Pauline Queen, che negli Stati Uniti si serve dei cani per rieducare i reclusi di 90 penitenziari, io ho avviato nel carcere femminile di Rebibbia il progetto ConFido: insegno alle detenute come si addestrano gli animali per i disabili».
Non ha mai incontrato persone che stravedono per i cani però hanno poca considerazione per gli uomini?
«Chi riversa l’affetto sul cane per compensare le proprie frustrazioni, fa solo del male a se stesso, oltre che al cane. I nostri amici a quattro zampe hanno bisogno di vivere nel branco: la famiglia. Il cane dev’essere il primo dopo l’ultimo degli umani. Cambiare questa gerarchia è il peggior insulto alla loro natura».
Quanti cani ha perso finora?
«Sei. La prossima sarà Wizzie, la beniamina di Paolo Bonolis in Tira e molla.
Come?
«Come le altre volte. Come se mi strappassero un braccio da vivo».
(401. Continua)
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