La notizia di ieri è che presto (avevano detto da lunedì, ma poi hanno cambiato idea) la sosta nel centro di Milano non costerà più un euro e mezzo ma due euro l’ora. D’accordo, i milanesi brontoleranno un po’, si scateneranno su Internet contro gli ausiliari della sosta, ma alla fine, come sempre succede in questa città, pagheranno senza fare troppe storie. In fondo pagare può non essere la fine del mondo, sempre che serva a qualcosa. Sempre che governo e amministrazione comunale ricambino quello che viene, più o meno volontariamente, loro devoluto. Non ci riferiamo solo a cose materiali: basta che si diano da fare, che ci facciano sentire orgogliosi di contribuire al miglioramento. Non pretendiamo tanto: magari che ci vengano risparmiate certe zuffe su dove piazzare gli uffici dell'Expo 2015: un grattacielo, una villa o forse meglio un castello? Pavimento di parquet o meglio il marmo di Carrara? Stucchi o affreschi? E che non sia lontano da piazza Duomo, perché di recupero delle periferie se ne parla solo se ad andarci sono gli altri.
C'è poi la rissa sull'affitto da pagare e sul bonus da dare all'amministratore delegato. Invece nessuno spiega cosa fare per attirare i trenta milioni di visitatori che dovrebbero, nei sogni degli organizzatori, riversarsi a Milano tra appena sei anni. Che vengono a vedere? Anzi, girano informazioni poco rassicuranti sui tagli dei fondi, pare per esempio che la linea 6 della metropolitana non potrà essere finanziata. E non si tratta di voci di corridoio, a parlare è il viceministro alle Infrastrutture che qualcosa dovrebbe saperne: «Parte dei finanziamenti è stata dirottata per la ricostruzione post terremoto in Abruzzo». Nobilissimo intento per carità, ma viene il dubbio che qualcuno non sappia guardare al di là del proprio naso. L'Expo (non quello da pollaio e bandierine variopinte in Galleria Vittorio Emanuele che abbiamo visto sino a oggi) è piuttosto un'occasione, anzi un volano come lo ha definito il sindaco Moratti, per rilanciare il Paese e quindi anche la ricostruzione dell'Aquila. Investimenti, posti di lavoro e soldi. Insomma, rallentare Milano significa rallentare anche l'economia del Paese.
C'è poi il pasticciaccio di Malpensa, già perché questi trenta milioni di visitatori in qualche modo a Milano ci devono arrivare. Ci sono i treni, le auto (che però inquinano troppo e pagano l'Ecopass), i barconi dei clandestini ma l'aereo resta certamente il mezzo più comodo. Succede che con la nascita della nuova Alitalia i voli settimanali dello scalo più importante del Nord Italia siano passati da 1.238 a 185, una riduzione del 90 per cento. E i passeggeri Alitalia sono diminuiti dell'87,9 per cento. Pensate che anche le griffe più importanti, da Valentino a Gucci e Trussardi, hanno deciso di chiudere le loro boutique all'aerostazione. Il motivo? Semplice, nella capitale della moda ormai sbarcano pochissimi, sparuti turisti. Niente americani, niente russi carichi di rubli e neppure giapponesi shopping dipendenti. L'arrivo di Lufthansa e Easyjet ha limitato un po' i danni, ma tanto per farsi un'idea della catastrofe sono rimasti senza lavoro in 7mila.
Si trasferisce tutto a Fiumicino come ci hanno spiegato mercoledì i vertici di Alitalia, quella sarà la base, quello sarà l'unico hub della compagnia. Hanno anche detto che lo sviluppo di Fiumicino è «compatibile» con quello di Malpensa. Ma a Milano ci credono in pochi, primo fra tutti il governatore Formigoni che accusa la compagnia di «bluff» e promette battaglia contro il monopolio. Insomma, un vero tradimento da parte della new company. Maroni e Bossi, ci permettiamo di ricordarlo, avevano promesso che si sarebbe tenuto un Consiglio dei ministri a Malpensa. E anche il premier aveva assicurato che si sarebbe certamente fatto. Poi sono successe tante cose, tutte importanti e degne della massima priorità, e non si è fatto niente. Ecco, forse adesso sarebbe il caso di spostare i riflettori sulle piste deserte dell'aeroporto lombardo. Abbiamo fiducia, vogliamo averne: si farà.
Sempre per restare in clima di ottimismo, può aiutare fare un tuffo nel passato. Così ci ricordiamo cosa sono capaci di fare gli italiani e i milanesi. Basta fare un salto indietro nel 1906 quando Milano ospitò l'Esposizione internazionale dedicata ai trasporti. Vennero costruiti 225 edifici, tra cui l'attuale acquario civico, e investiti 13 milioni dell'epoca. Gli architetti? Naturalmente i migliori del tempo. L'abbiamo già scritto ma vale la pena ripeterlo: quaranta le nazioni partecipanti, gli espositori oltre 35mila e i visitatori più di 5 milioni. E gli aerei neppure esistevano. Il successo dell'iniziativa fu tale che rese impossibile accogliere tutte le richieste di partecipazione, in alcune sezioni si dovette respingere fino all'80 per cento delle domande. Parco Sempione e l'ex area della Piazza d'Armi (diventata poi la Fiera) erano state collegate con una avveniristica ferrovia sospesa che tutto il mondo ci invidiò. E poi proprio quell'anno si celebrò l'apertura del traforo transalpino del Sempione, simbolo di quell'Expo.
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