Il Prc: sempre coi no global

da Roma

Si sono trovati davanti alla tomba di Enrico Berlinguer, nel giorno dell’anniversario della sua morte. Il ventitreesimo. Due delegazioni di Rifondazione e dei Comunisti Italiani, i partiti in crisi d’identità, rinnegati dal loro stesso popolo. E chissà se hanno ripensato alla denuncia del segretario del Pci: «I partiti sono diventati macchine di potere». Perché è la stessa accusa che muovono i movimenti alla sinistra istituzionale e a Rifondazione comunista in particolare. L’accusa della base che sabato ha sfilato lontano dalla piazza del Popolo senza popolo, il luogo della solitudine per i dirigenti della cosiddetta sinistra radicale: di governo, e non di lotta, in quell’occasione.
Il risultato delle elezioni, con l’insuccesso della manifestazione di sabato, ha piegato il partito di Bertinotti ai minimi storici di gradimento. Non se ne parla, ma il tesseramento è ridotto all’osso, e il Prc potrebbe perdere, secondo quanto si vocifera, addirittura il 40% dei tesserati entro la fine dell’anno. Ieri la segretaria del partito si è riunita e ha ammesso che la divisione delle piazze il 9 giugno è stato «un errore di cui è giusto assumerci le responsabilità». La linea guida ora è: «Ricostruire l’unità del movimento e costruire l’unità delle sinistre», ma non si fa chiaramente cenno a strappi con il governo. La scialuppa di salvataggio potrebbe essere la creazione di un nuovo soggetto politico, «Sinistra», che aggreghi Rifondazione, Pdci, Verdi e fuoriusciti dei ds. Ma rimarrebbe pur sempre un soggetto alleato del Partito democratico, e quindi filogovernativo. Si rimarrebbe quindi sempre maggioranza, quando, secondo i più critici del partito, è l’opposizione la casa naturale della sinistra delle lotte sociali.
L’impressione è che il terremoto interno a Rifondazione, il rischio implosione per un partito che in queste ultime amministrative ha visto dimezzati i suoi elettori, trascini verso la rovina anche il governo. Il deputato Salvatore Cannavò ha annunciato in un’intervista che pensa al divorzio. Ma il pericolo non sono tanto le dimissioni isolate, quanto il voltafaccia al momento del voto di alcuni senatori che, dopo la condanna della piazza, non se la sentiranno più di votare contro la loro storia. Si dice che ci sarebbero quattro o cinque voti in bilico a Palazzo Madama su alcuni temi cruciali. Che significa maggioranza a rischio.
«Il problema - commenta Luigi Malabarba, ex senatore di Rifondazione che ha rassegnato le dimissioni lo scorso autunno - è che non c’è stato in questo anno nessun condizionamento alle politiche del governo, ma piuttosto una subordinazione ed è avvenuto un progressivo e quasi irreversibile distacco dai movimenti».
Più d’uno, nel Prc, preme per un congresso straordinario, che appare però di difficile realizzazione. Si cerca piuttosto lo scatto d’orgoglio. Orgoglio per recuperare la piazza. Ma c’è il patto di ferro con Prodi: «Dobbiamo reagire - dice Claudio Grassi, senatore dell’area dell’Ernesto -. Rifondazione trovi la forza di rilanciare il suo profilo». Sembra questa la nuova linea: alzare la voce, ma non strappare. E una conferma arriva da Gennaro Migliore, capogruppo alla Camera: «La crisi della politica si recupera solo con un reale rapporto popolare. Non si tratta tanto di recuperare un generico rapporto con i movimenti, ma di avere un punto di vista più unito a sinistra sui temi sociali e politici». E si può leggere una nota di autocritica nell’intervista del segretario del partito, Franco Giordano, a Repubblica: «La prossima volta staremo con i movimenti, anche se la piattaforma non dovesse convincerci».
Ma se Rifondazione torna al popolo, come voterà in aula? È questo il nodo da risolvere, perché non si può sfilare con i movimenti e rinnegarli al momento del voto in nome della fedeltà a Romano Prodi.

E il Dpef sembra l’appuntamento più critico: per tornare a dialogare con la base delusa, si è lasciato andare Giordano, bisogna «essere limpidi e dare seguito alle promesse della campagna elettorale: abolizione dello scalone, lotta alla precarietà, aumenti retributivi». Sinistra di lotta. E il governo?

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