Cultura e Spettacoli

Premiata una delle miniere chiuse dalla Thatcher

Le dolci colline gallesi, cantate dai bardi celtici e da Dylan Thomas, sono tornate al loro aspetto rurale quando Margaret Thatcher ha chiuso le residue ferite nerastre che ancora segnavano i dorsi e le valli. Quando le ultime miniere di carbone sono state chiuse, come vecchie piaghe del mondo industriale, dopo strenue lotte, negli anni Ottanta, dalla Lady di Ferro. Una, Big Pit, ha riaperto per i turisti nell’83. E quest’anno ha ricevuto il premio della Fondazione Gulbenkian destinato ai migliori musei, il più cospicuo e prestigioso della Gran Bretagna. Si trova a Blaenevon, Galles del Sud non lontano dal porto di Cardiff.
Prima di scendere a circa cento metri nelle viscere della terra, la guida, ex minatore, invita a togliere qualsiasi dispositivo elettronico per evitare scintille che potrebbero generare esplosioni. Non solo i telefonini, che tanto lì sotto non prendono, ma anche orologi al quarzo. Quindi si indossa l’elmetto di plastica, con la luce alimentata da una fonte energetica isolata, e si entra in un rude gabbiotto che sarebbe l’ascensore. Arrivati giù, tra i cunicoli del Big Pit, la guida spiega che fino agli inizi del ’900 i minatori scavavano a mano. Poi sono arrivati sistemi meccanici. Molti i bambini impiegati per un piatto di minestra. L’anno di massima occupazione è stato il ’13, con 1300 lavoratori. I minatori vivevano nei villaggi e provenivano da tutto il mondo. Gli italiani erano chiamati tutti Bracchi dal nome di una famiglia. La voce della guida è coinvolgente e sembra quella che nei cartoon di Walt Disney descrive fuori campo le terribili avventure di un piccolo cerbiatto che si trova solo in mezzo alla neve.
Camminando tra i cunicoli arriviamo alle stalle. Qui erano tenuti cavalli e ancora sono incisi i loro nomi. Li usavano per tirare i carrelli di carbone. Vivevano sempre nel sottosuolo e solo quando stavano per tirare le cuoia li portavano in superficie per l’ultima sgroppata prima di essere abbattuti. La guida invita a spegnere le pile dell’elmetto protettivo. «Pitch dark» dice. E fa risuonare nel cunicolo nero questa espressione che significa «buio pesto». Ma se non siete mai stati in miniera sono parole vuote di significato. Il buio pesto non è quello della notte nelle città, quando avete spento la luce in ogni camera e anche la televisione. No, in superficie il buio pesto non esiste perché c’è sempre qualche fonte luminosa anche nella notte più scura e nel posto più sperduto, le stelle, la luna. Dopo il colpo di teatro, si torna in superficie dove, nella mensa mineraria, viene offerto un tè caldo coi biscotti e anche il cielo tempestoso del Galles rasserena l’animo. Ma una domanda viene da fare alla guida. Se le condizioni di lavoro, tra silicosi e il resto, anche dopo gli anni della rivoluzione industriale, erano così dure perché tutte quelle proteste quando la Thatcher ha voluto chiudere le miniere? «Perché eravamo una comunità, molto solidale e legata, proprio a causa delle condizioni di lavoro.

Una comunità che si è dispersa».

Commenti