Di certo non si aspettavano di trovarsi qui, faccia a faccia, per la loro prima volta, tre del pomeriggio di domani, ad Ashburton Grove, Emirates Stadium, London, dove a febbraio il Brasile incontrerà l’Italia, uno che guarda il mondo dalla Casa più esclusiva del pianeta, l’altro che lo intravede appena dalle grotte del Nurestan o lì nei dintorni, ammesso che ci sia ancora. Obama contro Osama, West Ham contro Arsenal, la guerra di religione, l’11 settembre, il mondo che verrà, o forse solo una partita di calcio, se non qualcosa di più, qualcosa di meglio.
Obama sta con gli Hammers, i martelli, la squadra di Bobby Moore, il capitano dell’unica Inghilterra campione del mondo, East End di Londra, working class, gente che lavora sodo che al massimo ha vinto la coppa d’Inghilterra una vita fa e che la rivalità la sente più che altro con quegli sfigati del Millwall, che hanno una reputazione peggiore dei peggiori bar di Caracas. Osama sta con i Gunners, i cannonieri, nord della città, la squadra più glam della capitale, tifoseria che conta, la Regina Elisabetta, Nick Hornby, multirazziale, ma snob, che considera derby solo quello con il Tottenham e che in panchina ha l’alsaziano Arsene Wenger, il rivoluzionario, che nemmeno un mese dopo le Twin Towers si autodefinì «il Bin Laden di Francia».
E poi dicono che i francesi hanno buongusto.
Ma Londra è la capitale dei derby, ce n’è uno ogni settimana, una rivalità in ogni vicolo, ci sono quindici squadre in città, tutte pro, più che in una metropoli, sembra di essere al palio, un’identità, una storia, una razza in ogni contrada. Obama, almeno così la racconta il Sun, è diventato tifoso del West Ham per merito della sorellastra Auma, figlia di Barack senior e della sua prima moglie, Kezia, che fa l’assistente sociale e ha vissuto nel Kent. Gianfranco Zola, l’allenatore, lo ha invitato da mesi: «Sempre che abbia tempo». Non ce l’ha, ma c’è sempre la tv. Osama, almeno così racconta la biografia di Adam Robinson, una quindicina di anni fa era ad Highbury a vedere l’Arsenal eliminare il Torino in coppa Coppe, cosa che ormai sanno tutti: visitò i musei, la Torre di Londra, Edimburgo, comprò una casa in Harrow Road, a Wembley, e fece scorta di magliette e gadget dei Gunners per educare i figli nella giusta fede.
Obama e Osama, in fondo ci piace pensarli come noi, uno di noi, divisi dai muri della storia ma vicini come nessuno nell’inutile sofferenza del tifo, fragili di fronte all’imprevedibile del calcio dove trionfa l’ingiustizia ed è per questo che piace. Il tifo è una brutta malattia, colpisce ovunque e chiunque, non fa differenza tra potenti e impotenti. Il calcio è il debole dei potenti. Giovanni Paolo II, che da giovane aveva pure fatto il portiere, ha amato il Wisla Cracovia, «Pensavo che la Vistola (che è la traduzione di Wisla) scorresse verso Danzica, invece vedo che viene verso Roma...» disse alla squadra in udienza vaticana per i 100 anni del club con la maglia numero uno per lui. Benedetto XVI è del Bayern Monaco, ma da quando è in Vaticano, dicono, si informa anche sui risultati della Juve, tedesca come lui, ma dell’Est, Angela Merkel è invece innamorata dell’Hansa Rostock, Gerhard Schroeder del Borussia Dortmund. Ma la fila ai botteghini è lunga.
Nicolas Sarkozy è un Boulogne Boys del Paris Saint Germain, José Luis Zapatero un Culè en Carabanchel del Barcellona, Lula un Mosqueteiro del Corinthians. Clinton è del Manchester United, Tony Blair del Newcastle, Gordon Brown del Raith Rovers da quando, ragazzino, vendeva il programma fuori dallo stadio. Putin, e i 150 milioni di dollari della Gazprom, hanno fatto grande lo Zenit San Pietroburgo, Evo Morales per riportare in A il suo Litoral, squadra della Polizia, è sceso in campo di persona, a 47 anni, numero dieci, e vediamo se c’è chi ha il coraggio di scartarlo. E al museo della Rivoluzione dell’Avana c’è la maglia gialloblù numero 11 del Rosario Central, la squadra di Ernesto Che Guevara. Maglia numero undici perché era quella più a sinistra.
Di recente il Times ha fatto una classifica dei tifosi che non vorresti mai avere in squadra.
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