Nel discorso dinsediamento a Montecitorio, Fausto Bertinotti sè dichiarato «uomo di parte». Gli va dato atto daver così ripudiato gli ipocriti ecumenismi di cui altri politici sammantano quando viene loro assegnata una carica istituzionale. Gli va dato egualmente atto daver confermato, con lorgogliosa affermazione, tutte le perplessità che sulla sua presidenza della Camera erano state avanzate. Ce ne eravamo fatti interpreti - senza speranza dessere ascoltati - con una nota che esortava il subcomandante Fausto a un passo indietro. Suggerivamo cioè che rinunciasse a una candidatura impropria, che tornasse al ruolo che meglio sa interpretare: quello dun facondo demagogo, un simpatico affabulatore, un istintivo dissidente e guastafeste. Invece ce lo ritroviamo numero tre dello Stato: e abbiamo dovuto ascoltare da lui, nellesordio come speaker di Montecitorio, parole che, in coerenza con le sue convinzioni, erano indubitabilmente di parte.
Non che siano mancati, nel messaggio bertinottiano, gli accenni alla concordia, alla civile convivenza, al reciproco rispetto. Luomo ha un eloquio che è elegante al pari del suo abbigliamento. Conosce le regole della cortesia oltre che quelle della mondanità. Ma - a cominciare dalla dedica della sua elezione alle operaie e agli operai, che sono una componente degna, preziosa, importante del Paese, ma non sono tutto il Paese, e da tempo non ne sono nemmeno la maggioranza numerica - ha voluto ribadire la sua aspirazione a una società diversa, e a strutture economiche profondamente diverse. Come è logico aspettarsi dal comunista Bertinotti.
Che ha reso omaggio - ottenendo lapplauso rituale - ai caduti di Nassirya. Ma a mio avviso i casi erano due: o Bertinotti taceva in proposito, oppure - volendosene occupare - ricordava lorribile invocazione «dieci, cento, mille Nassirya», venuta da certe tenebrose viscere del suo popolo: e quellinvocazione condannava con termini espliciti, senza badare allirritazione che poteva derivarne per il suo vivace neodeputato Francesco Caruso. Non vorrei sembrare malizioso: ma anche il suo insistere sulla scuola, e le sue lodi agli insegnanti, avevano laria di voler sconfessare Letizia Moratti (che proprio da insegnanti esagitati è stata insultata e minacciata nel corteo milanese per il 25 aprile).
Data fatidica, questa, che Bertinotti ha distesamente richiamato. Niente da eccepire anche se alcune citazioni - quella di don Milani per la scuola, quella di Calamandrei per la Resistenza - paiono fin troppo replicate e risapute. Ma ciò che più ha inquietato nel profilo delle vicende italiane tracciato da Bertinotti è la sua schematicità settaria. La storia dellItalia moderna si riduce a un pugno di mesi, quello dall8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, come non ci fossero stati un prima e un dopo. La lotta partigiana, cui partecipò una minoranza valorosa (con parecchi militanti ansiosi dinstaurare in Italia una dittatura rossa) ha avuto personaggi ed episodi fulgidi. Un pellegrinaggio a Marzabotto o ad Auschwitz è fortemente educativo.
Ma insieme ad altri pellegrinaggi, per commemorare eventi gloriosi o tragici (purtroppo ce ne furono anche di umilianti e di vili) dellItalia moderna. Che vinse la prima guerra mondiale, che saffidò per ventanni a Mussolini, che subì lorrore delle foibe, che assistette alle mattanze pseudo antifasciste del dopo-Liberazione, che con le elezioni del 18 aprile 1948 scelse di legarsi agli Stati democratici e di rifiutare lalleanza al totalitarismo staliniano. La storia in versione bertinottiana è temporalmente brevissima e ideologicamente blindata. Come saddice a un comunista, seppure colto e intelligente.
Bertinotti si è espresso - con le concessioni dobbligo alla solennità cerimoniale - in stile Bertinotti. Il «ragazzo rosso» - i quasi rivoluzionari rimangono ragazzi a vita, come Giancarlo Pajetta - non può deludere troppo i molti suoi estimatori che sannidano nelle frange antagoniste e no global.
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