Il prete-portiere dei disperati

«Don Chino è un pragmatico, ama far quadrare i conti e fare il passo secondo la gamba, come la saggezza popolare insegna. Lui non sfida l’azzardo sia pure a fin di bene per estendere i confini del suo provvidenziale aiuto». Non è un gran momento per i preti-manager o i sacerdoti carismatici e gestori di opere e comunità varie. Le ferite per le vicende di don Pierino Gelmini e don Luigi Verzè sono ancora ben aperte e così, non conoscendo la figura di don Chino Pezzoli, mi sono accostato guardingo alla lettura di Cime di libertà, il libro-intervista con Giuseppe Zois pubblicato dalla Fondazione Promozione e Solidarietà Umana (pagine 272, euro 15).
Capita spesso che questi sacerdoti vivano dentro un’ultima solitudine e si facciano prendere dall’ambizione dei propri progetti. Oppure, come ha prospettato il recente e drammatico film Il villaggio di cartone diretto da Ermanno Olmi, peraltro conterraneo e buon amico di don Pezzoli, entrano in una crisi vocazionale che finisce per mettere in discussione il valore della fede e la sua utilità per compiere il bene. Per fortuna non è ciò che accade al protagonista di questo racconto, il quale, oltre che nella spiritualità e nella preghiera, attinge forza per fronteggiare le emergenze da «una vita insieme agli altri, che credono e condividono i miei stessi ideali». Solo questo conforto aiuta a reggere l’urto di una quotidianità sempre più drammatica com’è quella di un «prete di frontiera» che si occupa di devianze sociali, tossicodipendenze e emarginazione giovanile.
Fin da piccolo, «nei campetti di fortuna che si rimediavano per tirare quattro calci a un pallone, il ragazzo Gioacchino, per tutti semplicemente Chino, faceva il portiere». Sapeva che era il più ingrato dei ruoli. Ma a lui piaceva parare, tuffarsi, tentare uscite disperate. Forse già nella preferenza per quel ruolo «si poteva leggere il segno del destino, che era quello di parare: i colpi del pallone in campo, quelli della vita come prete. Il portiere dei disperati». Figlio di una casalinga e di un ambulante tessile di Leffe, il paese delle coperte della bergamasca, Gioacchino è il secondogenito di sei figli. Tutto inclina a fare anche di lui un lavoratore della lana, ma pian piano si fa strada un altro pensiero. E la mattina dopo aver trascorso l’intera a notte per finire di montare uno dei telai voluti dal fratello maggiore per mettersi in proprio, Gioacchino entra nel seminario di Venegono. Siamo nel 1955, lui è ventenne ed è una vocazione adulta. Diventerà sacerdote dieci anni dopo, il 26 giugno del 1965, nel giorno che, altro segno del destino, governi e organismi internazionali sceglieranno come Giornata mondiale contro la droga. Prima di occuparsi dei tossicodipendenti, però, don Chino si dedica agli operai della periferia milanese. Ma è lì che a fine anni ’70 s’imbatte nei primi giovani con l’eroina in tasca. Che fare con questi ragazzi? Un giorno dell’estate 1980 il prevosto di San Giuliano mette a disposizione la casa alla Presolana dove già qualcuno di loro tenta la difficile strada del riscatto. È qui che prende il via la grande opera di don Pezzoli, oggi composta da trenta comunità, centri di ascolto, attività produttive per l’accoglienza, la cura e la riabilitazione di tanti giovani.
Don Chino è un «prete sociale». Che però non dimentica l’insegnamento dei suoi padri spirituali, don Luigi Carcano, il cardinal Colombo, Carlo Maria Martini, don Bosco, Madre Teresa di Calcutta, Papa Woijtyla e Papa Ratzinger. Ma è un grande sacerdote al passo con i tempi, calato nelle contraddizioni dell’oggi. Don Chino diffida dell’eccessiva influenza esercitata dai media, vecchi e nuovi. Ecco che cosa gli ha raccontato un ragazzo sedicenne, formato dalla cultura della televisione e dal mondo di sogni che diffonde: «Era un mondo in cui le persone erano sempre staccate da me e in sintonia con i miei desideri. E quando non lo erano, cambiavo canale. Quando mi sono reso conto che questa lieta avventura non corrispondeva alla vita e che per avere un risultato occorreva avere i piedi per terra e lottare, mi sono drogato». «Quando un ragazzo si appassiona sempre di più al digitale e abbandona il reale, ci rivela un sintomo allarmante», dice don Chino. Purtroppo, è sua la riflessione, latitano la famiglia, la scuola, le amicizie giuste, tutte le cosiddette agenzie educative indispensabili per la formazione di una personalità adulta. È infatti la preoccupazione educativa la priorità di don Chino, lui che ha capito che dai genitori assenti, dai padri troppo permissivi o anche troppo autoritari derivano danni profondi alla vita dei ragazzi.
Negli ultimi anni la famiglia ha sostituito la cultura dell’avere e dell’apparire a quella dell’essere. E la scuola ha preferito coltivare le competenze e l’istruzione anziché la formazione complessiva dei giovani. Il compito è difficile, la strada è in salita.

Ma in compagnia di persone come don Chino Pezzoli è una strada che si può intraprendere con una buona dose di speranza in più. Per convincersene del tutto basta leggere «l’alfabeto del bene» che chiude il suo libro. Ricordate il bisogno di «un prete per chiacchierar» di Azzurro? Don Chino Pezzoli c’è.

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