«Prigioniero» in Cina da tre mesi L’odissea di un imprenditore ligure

da Genova

Una firma e via, Alessandro Bini sarebbe ripartito verso l’Italia con un contratto da cinque milioni di euro. Roba al di sopra di ogni sospetto. Gadget per la Vuelta di Spagna, magliette, cappellini e mascotte per festeggiare il passaggio dei ciclisti. Invece i quindici giorni del suo viaggio d’affari in Cina sono diventati trenta, e poi quaranta, e poi ancora sessanta e più.
Alessandro Bini è ancora in Cina, bloccato senza motivo dal 19 febbraio scorso. Trattenuto e respinto negli aeroporti con ogni scusa. «Sequestrato» da uomo libero dalla polizia locale che non lo fa partire. Il passaporto non gli è stato ritirato, non è mai stato arrestato, non è sotto processo, può andare dove vuole, ma non può lasciare la Cina. Ci ha già provato almeno cinque volte, l’ultima il primo maggio, ma neppure il consolato italiano riesce a farlo imbarcare su un volo per Genova.
Bini non ha dubbi sul perché venga tenuto in ostaggio. Anche perché pochi giorni dopo il suo arrivo in Cina gli è stato fatto capire che non avrebbe dovuto rivolgersi a un tribunale italiano per risolvere due controversie d’affari con altrettante società cinesi. «La polizia mi ha convocato e mi ha detto che c’erano problemi con queste due società - racconta disperato da Shanghai -. Eppure una situazione è stata subito archiviata, in nessuna delle due ci sono problemi particolari, solo questioni di lavoro». Ma il 19 febbraio, 11 giorni dopo il suo arrivo in Cina, Bini non ha potuto riprendere l’aereo già prenotato. «Un poliziotto mi ha pesantemente minacciato, dicendomi che se avessi accettato di pagare l’equivalente di 300mila dollari alla società cinese con cui ero in causa non avrei avuto più intoppi - spiega Bini -. Poi, ogni volta, ci sono stati problemi diversi». Ogni volta che andava in aeroporto, l’imprenditore genovese veniva respinto con una scusa. Un visto d’ingresso nel frattempo scaduto per colpa del divieto di ripartire, una multa da pagare, un disguido con l’Alitalia, un documento da far arrivare in Cina, anche un semplice «no».
Sbeffeggiato dalla polizia cinese, l’imprenditore si è rivolto al consolato italiano. Ha deciso di non stare troppo a lungo nella sua casa di Shanghai per paura di altre ritorsioni. Gira da una città all’altra, da un ufficio a un aeroporto. Telefona in Italia, perché nessuno gli ha tolto il telefonino. E scrive via mail perché è un uomo libero. Ha dato mandato al suo legale, l’avvocato Maurizio Porretti Massucco, di denunciare questa sua situazione grottesca. «Non ce la faccio più - scrive con il suo computer portatile -. Tra l’altro soffro di ipertensione arteriosa congenita, che va tenuta costantemente sotto controllo medico, e quest’anno non ho potuto ancora effettuare gli accertamenti necessari. I miei affari rischiano di andare a rotoli. Mio figlio, che pure è specialista di informatica per una nota società di assicurazioni, manda avanti la baracca. Mia moglie è incredibile, mia figlia mi dà soprattutto un enorme supporto morale, ma io non posso stare più qui».
Bini pensa alle sue due società, ai clienti italiani che aspettano le forniture promesse, ai contratti da concludere entro pochi giorni. Ma soprattutto pensa alla sua vita da prigioniero libero.

Non ha idea di quando potrà ripartire, perché non c’è regola che lo possa trattenere e tutto gli sembra in mano alla discrezionalità della polizia cinese. Soprattutto inizia a mancargli la fiducia nelle autorità italiane. Spera ovviamente di essere smentito, spera che il consolato a Shanghai e il ministero degli Esteri sappiano dimostrare il loro peso. Spera.

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