Primavera araba? Macché è il boom di Israele

Fra le sorprese di questa settimana ve ne è una che sembra un pesce d’aprile: una società di rating minaccia di abbassare la credibilità finanziaria degli Stati Uniti mentre eleva quella di Israele. Anche se esistono dubbi sul valore di queste valutazioni è legittimo chiedersi cosa giustifichi l’aumento della credibilità finanziaria dello stato ebraico. Israele è presentato dalle sinistre e dagli arabi come un paese razzista e instabile in cui è doveroso disinvestire. Cosa induce a credere nella crescente solidità finanziaria di un paese in guerra da più di 60 anni, privo di frontiere e di capitale riconosciuti e che ancora nel 1984 soffriva di una inflazione del 445%? È la scoperta di gas sottomarino che corona una economia aumentata di 50 volte in sessanta anni.
Le cause di questa crescita «cinese» sono analizzate da due giornalisti, Dan Senor e Saul Singer, in un libro pubblicato dal prestigioso Council of Foreign Relations di New York intitolato Start Up Nation, «La storia del miracolo economico di Israele». Libro che in pochi mesi ha venduto centomila copie ed è stato tradotto in diecine di lingue. Non sarà l’oggetto di questo articolo ma è curioso notare che non menziona la scoperta di queste fonti di energia. Forse per non pubblicizzare un fatto che ha ricevuto sinora pochissima attenzione.
Comunque stiano le cose, alla base dello sviluppo economico israeliano e del «segreto» del suo potenziale energetico c’è il boicotto arabo. Ha spinto da un lato Israele a cercare metodi per superarlo e dall’altro ha per anni impedito alle società petrolifere legate ai paesi di interessarsi al suo potenziale energetico. Quasi 500 trivellazioni condotte da Israele in 50 anni non hanno dato che miseri risultati mentre l’interesse per i giacimenti di gas era limitato dall’abbondanza e basso prezzo del petrolio. Solo nel 1999 la società israeliana Delek e quella texana Noble Energy scoprirono e chiamarono Noa il primo giacimento sottomarino dotato di 7,6 miliardi di mc di gas. Poca roba, ma ad esso seguì la scoperta dei giacimenti sottomarini di Tamar, Dalit e Leviatan con un potenziale di 3,4 trilioni di mc di gas. Due terzi sono esportabili, dopo aver coperto le necessità israeliane. Gli effetti si fanno sentire. La Società elettrica israeliana, convertita dal carbone al gas, ha risparmiato 55 miliardi di dollari e diminuito il costo dell’energia elettrica dell’11%. La dipendenza dalle forniture di gas egiziano è di fatto cessata. La battaglia fra il governo e i gruppi privati che hanno sviluppato questo tesoro sottomarino è terminata con un compromesso che permette allo stato di aumentare gradatamente le basse royalty (12%) fissate nel 1952 e creare un fondo sovrano per garantire l’investimento dei guadagni nella ricerca scientifica, nella politica sociale e sanitaria.
Le ricadute politiche e strategiche sono enormi specie nel momento in cui l’intero Medio oriente è sconvolto dalla rivoluzione araba. Grazie alla firma con Cipro per la spartizione e lo sfruttamento del fondo marino (accordo che ha irritato la Turchia) e la possibilità di creare in Grecia centri di liquefazione del gas israeliano, Israele si rivela fonte sicura di idrocarburi per l’Europa, indipendentemente dal beneplacito russo e arabo. Trasforma, soprattutto, lo stato ebraico in asset per l’Occidente piuttosto che in problema. La disponibilità di larghe entrate permette al governo di Gerusalemme di liberarsi dai debiti, di immaginare politiche più generose e meno sospettose nei confronti tanto della minoranza araba israeliana (1,3 milioni) quanto dei palestinesi a cui sarà possibile offrire una partnership energetica capace di rinforzare la volontà di cooperazione piuttosto che quella di distruzione e vendetta.


Nel momento in cui tutti i paesi sono obbligati dal disastro atomico giapponese a ripensare le loro politiche nucleari; in cui i governi arabi sono obbligati dalle rivolte popolari ad abbandonare la politica della stabilità legata alla dittatura in cambio del sostegno internazionale; la trasformazione di Israele da cliente a fornitore di energia e da fulcro di crisi a modello democratico di sviluppo multiculturale e multireligioso non è solo un «miracolo» economico. È una speranza che nessuno ha diritto di spegnere.

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