Roma - Il bicchiere mezzo pieno: «Oggi abbiamo ottenuto una maggioranza più ampia di due anni fa e messo in cantina qualsiasi ipotesi di governo tecnico». Il bicchiere mezzo vuoto: «Sono un po’ deluso dai numeri perché mi aspettavo qualcosa di più». Nelle sue conversazioni private, ricevendo uno dietro l’altro deputati e ministri nella stanza riservata al governo a Montecitorio, Silvio Berlusconi alterna scetticismo e soddisfazione. Sul piatto della bilancia, infatti, c’è un voto che è decisamente sotto le aspettative rispetto ai numeri che fino a poche ore prima gli avevano prospettato i coordinatori del Pdl, tanto che nei loro confronti non risparmia qualche accenno polemico. Senza il Fli e l’Mpa, infatti, la maggioranza si ferma a quota 308 contro i 318 o addirittura 319 che gli avevano prospettato. La strategia della colomba, insomma, non porta i risultati auspicati con la verifica che è solo rimandata al primo voto utile, magari già la prossima settimana quando la Camera discuterà la mozione di sfiducia a Bossi presentata dal Pd. Se non chiederà scusa per le frasi su Roma, fa sapere Bocchino, il Fli è pronto a votarla. Ed è chiaro che la sfiducia al ministro che è leader del secondo partito della maggioranza non potrebbe che portare dritto al voto.
Si allungano i tempi, dunque, ma la sostanza non cambia. Tanto che Alfano e Maroni nei loro colloqui privati non hanno dubbi: a marzo si torna alle urne. Concetto che il ministro dell’Interno, del tutto ignaro della telecamera di La7 che sta lì a pochi metri, ripete al governatore pugliese Vendola. D’altra parte, il ragionamento che Berlusconi affida in privato ai due ministri è esattamente questo: «Abbiamo cose più serie di Fini di cui occuparci. Al prossimo sgambetto si va al voto». E «sarà già a marzo», ipotizza più tardi mentre a Palazzo Grazioli festeggia i suoi 74 anni a cena con alcune deputate.
Ed è per questo, forse, che il premier insiste nel dire che il voto di ieri allontana l’ombra di un governo tecnico. Perché ora la maggioranza può contare su sette voti in più rispetto a due anni fa (nove considerando Menia e Pittelli che, causa caffè, non hanno fatto in tempo a votare). Insomma, seppure sul piano strettamente formale, si è di fatto allargata. Con l’opposizione ferma a 275 voti che pure aggiunti ai 39 di Fli e Mpa non arrivano alla quota 316 necessaria per un esecutivo tecnico. Non è un caso che più volte nel corso del suo intervento Berlusconi punti l’accento sulla legittimazione popolare del governo e della maggioranza, un modo per mettere le mani avanti in vista di uno show down che ormai anche i finiani danno per molto probabile. Tanto che la risposta del Fli a un discorso che il Cavaliere si sforza di tenere il più alto possibile e senza alcun accenno polemico è l’annuncio della nascita del «progetto politico» di Futuro e libertà. Tradotto: dopo il gruppo parlamentare arriva il partito.
L’atteso discorso sui cinque punti programmatici, dunque, cambia poco o nulla. Ma, Berlusconi lo sa bene, fa segnare anche un punto a Fini che porta a casa nei fatti la legittimazione politica del suo Fli. Se due anni fa la maggioranza che votò la fiducia al governo era sostenuta solo da Pdl e Lega oggi deve fare inevitabilmente i conti con Fli e Mpa che sono determinanti. E che per l’occasione decidono di siglare un asse di ferro, tanto che Bocchino assicura che voteranno sempre insieme. Un patto che guarda proprio all’eventualità che si torni presto alle urne, visto che l’alleanza - già presente nella nuova giunta siciliana di Lombardo - renderebbe davvero difficile un successo del Pdl in Sicilia.
Ed è anche questo il bicchiere mezzo vuoto del Cavaliere. Che dopo aver limato nei dettagli i suoi due interventi - con Giacomoni a fare da staffetta con il fax per inviare le correzioni da Montecitorio a Palazzo Chigi - si trova con un Fini, ragiona in privato il premier, che «non perde l’occasione per marcare le distanze». Come fanno pure nei loro interventi Bocchino e Della Vedova, capogruppo e vice del Fli, che decidono di allargare il fronte polemico con più di un accenno critico sull’economia (dettaglio che Tremonti non manca di cogliere).
Questione di tempo, insomma. Perché è chiaro che l’equilibrio non potrà reggere a lungo. La fotografia di un rapporto ormai irrecuperabile arriva mentre parla Di Pietro, che con il premier usa toni violentissimi.
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