Con «il Principe» Alì contro Foreman

«Le donne emettono un udibile sospiro. Gli uomini abbassano lo sguardo. Si rammentano di nuovo del loro scarso valore. Anche se Alì non avesse mai aperto bocca per far tremare le gelatine dell’opinione pubblica, ispirerebbe sempre amore e odio. Poiché Alì è il Principe del Cielo: così dice il silenzio che circonda il suo corpo quando egli è luminoso». Norman Mailer aveva perso la testa, quella sua testa matta, per Marcellus Cassius Clay poi Muhammad Alì.
Era l’autunno africano, era lo Zaire, era Kinshasa, Il Principe del Cielo avrebbe messo i guanti per tornare Re del Mondo contro George Foreman. Ottobre del ’74. Mailer amava la boxe, ingoiò 40mila chilometri, due viaggi per gli intoppi dello stesso match, le luci di Brooklyn e lo strano luccichio di Kinshasa. Infine riuscì nell’arte di vedere, assistere all’evento per poi mettere assieme la memoria in un libro, The Fight. Non si limitò a narrare la storia accaduta sul ring ma servì a raccontare l’avventura intera, la vigilia, gli umori, i respiri, le paure (?), la superbia (!) del prima e del dopo, gli allenamenti, sgonfio quello con Holmes, all’inizio presuntuoso e indolente con Eddie «Bossman» Jones («come un ispettore a una catena di montaggio che respingeva il prodotto»), poi feroce, fino a stremarlo, per poi divertirsi in un giro turistico e di studio, lo Zaire, la cultura bantù, i riti di religione, l’astuzia di Mobutu e l’idea magistrale e furbastra di parlare, dunque scrivere, di se stesso in terza persona, Norman, lui protagonista come lo era, innanzitutto Foreman, l’avversario di Alì, osservato, molestato dallo stesso Principe: «Entra sciocco, non ti farò del male», lo sfotteva il Principe quando il Campione in carica allungava la sua ombra in palestra.
Mailer ha messo dentro tutto quello che captava, che fiutava, che annusava, le puntate degli scommettitori, i riti degli stregoni, una meravigliosa descrizione dello stanzino spacciato per spogliatoio «forse assomigliava a un gabinetto di decenza della metropolitana di Mosca», le parole di sfida: «Digli di venire a ballare, digli di colpirmi alla pancia». Poi the fight, l’incontro, il combattimento, ogni pugno descritto nella preparazione, nella traiettoria, nella forza, nell’effetto, anche con il sonoro fantasioso, fanciullesco, come in un fumetto: «spring-zing!», il diretto destro, il jab, l’allungo, la difesa alle corde, la provocazione: «Tu non sei capace di colpire, tu spingi!», «niente, non hai mira!» dopo un colpo mancato di Foreman e/o schivato dal Principe, la rimonta di «Great Fighter» , G.F. le iniziali sull’accappatoio del campione uguali a quelle del suo nome e cognome, per arrivare all’epilogo, tremendo, ottavo round, la fine di Foreman, con una serie di cazzotti e «il miglior pugno di quella notte sensazionale» che piegarono Foreman facendolo cadere «come un alto maggiordomo sessantenne che ha appena appreso una tragica notizia». Fu il trionfo di Alì che, Norman Mailer ricorda, svenne in mezzo alle api che lo festeggiavano.
Un film dentro un racconto, sequenze scritte come fotogrammi. Accadde in Quando eravamo re, il documentario di Leon Gast con gli interpreti di quei giorni, i pugili e James Brown, Miriam Makeba, Spike Lee. Il film entrò in circuito nel ’96, c’era anche Mailer nella parte di se stesso.

Resta la memoria incantata di un tempo fuggito via, resta la forza descrittiva di un giornalista scrittore e di uno scrittore giornalista, di chi ha saputo trasformare note di cronaca in pagine di mitologia, resta Mailer al centro del ring, mentre attorno gli ronzava la vita che mille volte lo ha messo alle corde, lo ha mandato all’angolo, gli ha fatto piegare le gambe. L’ultimo gong ha chiuso il suo incontro. Lasciando ancora ai nostri sogni, la nostalgia di Cassius Clay, la tenerezza di Muhammad Alì.

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