Il problema di Benitez: non è bello come Mou

Era un figo addirittura. Avete presente José Mourinho? Ecco una volta Benitez era più o meno così. Era un’altra cosa. L’Inter cambia faccia, cambia nome, cambia mano, cambia look: lascia il macho, prende il mocio. L’estetica modifica un assetto che il campo lascerà invariato: Benitez sbarca con l’autorevolezza del competente, appesantito nel fisico, ma non nella mente. È lo stesso degli ultimi anni, non quello del passato, quando aveva fisico asciutto, tonico, snello. Le tempie piene. La fronte bassa. I capelli folti. Pure il nome passionale: Rafa. E dàgli con gli addominali. Su, dài. Ora la pectoral machine. «Ciao, sono il personal trainer, ho qui la tua scheda». La tabella di Montserrat, Benitez l’aveva studiata una notte. I calcoli a letto, a occhi aperti e poi chiusi: nel sonno ha sempre ragionato. S’incrociano i dati, s’incastrano gli esercizi. Bilanciamento, l’eterna fissazione. In palestra, nella dieta, nel pallone: quella ragazza non doveva dimagrire, solo rassodare. Lui non ce l’ha fatta: la pancetta alla fine ha sconfitto i muscoli, la testa alla fine ha umiliato la chioma. Rotondo, seduto, stempiato. Ha percorso le scalette della panchina di Anfield col passo di uno che atleta non lo è stato mai. Allora Montserrat s’è arresa al personal trainer che ha perduto l’allenamento, è capitolata di fronte all’ossimoro atletico: il fidanzato atletico, il marito floscio. Però la telefonata era stata carina: la mattina presto, tipica di uno che ci pensa, che c’ha lavorato di notte, che ci tiene. Poi il cervello: intelligente, attento, preciso. Si vede. Il nome, anche. Non cambia, quello: Rafael, cioè Rafa. Non è la stessa cosa sul suo fisico adulto e rilassato. Però questo è lui, ora. È questo con la mania per la corrida, che riporta in alto il testosterone e sfonda i pensieri. Benitez torna giovane alla Plaza de Toros. Torna spagnolo che una volta l’hanno accusato di aver latinizzato troppo Liverpool per qualche anno, allora ha deciso di fare marcia indietro e s’è inglesizzato lui. Adesso che fa? Porta qui un po’ di Spagna o il contrario? All’Inter può anche non importare: basta che faccia quello che ha fatto a Liverpool, cioè giocare e vincere. Non s’è preso il campionato, però la Champions sì. Lì sulla Mersey è stato un padrone: «Ho capito questo: per fare la Premiership non puoi essere uno qualunque. Qui a Liverpool ho cambiato drasticamente l’organizzazione del lavoro, ma mi sono imbevuto della loro leggenda per poter entrare nella testa di chi tifa per noi». Rafa è un tipo che sa come accarezzare la pancia del tifoso: quando arriva in una nuova città studia, si documenta e poi rilascia pillole di complicità affettiva tra allenatore e pubblico. Molto lo deve a Montse. È lei che ha studiato tutti i libri sulla storia dei Reds e gli ha fatto fare la bella figura a Liverpool. Tutti: i Beatles, Bill Shankly, il mito di Anfield, la rivalità con l’Everton, Kenny Dalglish, Ian Rush. Per un anno intero, ogni sera, la moglie interrogava Rafa: quando è nato il Liverpool? «1892». E chi l’ha fondato? «John Houlding». Che cosa c’è scritto sulla parte superiore dello Shankly’s gate? «You’ll never walk alone». Qual è la storia più divertente sulla Kop? «Ah, sì. Quando cominciava la partita si stava così stipati che era impossibile uscire. Nessuno poteva andare in bagno, così si faceva la pipì sulla gradinata». Alla fine le sapeva tutte. Liverpool è stata sua e adesso spera di prendersi anche Milano. Nessuna è Madrid, però vale la pena provare. Studierà, s’informerà, parlerà presto l’italiano. Anzi no: lo parla già. Conosce cinque lingue, compreso il catalano. Il dettaglio dice poco a chi non ricorda che cos’è la rivalità Madrid-Barcellona: Rafa se ne frega, quella lingua che per la sua Castiglia è solo un dialetto lui l’ha imparata. Così come l’italiano. Lo vedi alla fine delle partite di Champions: gli fanno una domanda le nostre tv e non ha mica bisogno dell’interprete. Si parla, si va.
Benitez è moderno, a dispetto di un look che non rende giustizia alla sua età. Ha 50 anni. Tre più di Mourinho con il qualche condivide diverse cose che non c’entrano con il look: come calciatore non valeva nulla, è diventato grande in una squadra importante nel suo paese, ma ai margini d’Europa, s’è trasformato personaggio in Europa, arriva in Italia. C’è stima tra Mou e Rafa: se lo sono detti e noi l’abbiamo letto. Dicono che potrebbe soffrire di un complesso d’inferiorità. Perché? Ha abbastanza esperienza per non farlo. Poi ha la competenza, la preparazione, la cura del dettaglio. Lavora tanto. Pretende dagli altri. Poi gioca: due attaccanti, gli esterni che salgono, un centrocampista che diventa punta aggiunta. Bravo, gli hanno detto in tanti. Quanto lo dirà il futuro. Quello che lo intreccia inesorabilmente al suo predecessore. Come José ha anche il Real nel destino. Lui è nato madridista.

Meringa nel cuore, nell’anima, nella testa: non ha mai negato di avere il desiderio folle di allenare un giorno la sua squadra. Un giorno. Quando? Per qualche tempo è stato un’alternativa a José anche quest’anno. Adesso non più. Adesso è Milano. Non è casa, è un arrivo che non ha una data di partenza.

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