Il processo di piazza alla politica è fatto senza neanche un reato

È il solito meccanismo: intercettazione a strascico e gogna mediatica. Le toghe vanno a caccia di crimini che non esistono. E nessuno si indigna

Il processo di piazza 
alla politica è fatto 
senza neanche un reato

Da Wikipedia: «Il sottobo­sco è quella parte dell’am­biente boschivo che si svi­luppa all’ombra degli al­beri ad alto fusto in situazione di scarsa illuminazione ed elevata umidità. Il sottobosco è un habi­tat ideale per molte specie anima­­li, che in esso trovano riparo e da esso traggono nutrimento: uccel­li di piccole dimensioni quali il merlo, il tordo, lo scricciolo, le cince, il fringuello, il pettirosso, il frosone, ma anche rapaci come il falco, la civetta, il gufo; mammife­ri carnivori di piccole dimensioni quali la volpe e la martora; spazzi­ni del sottobosco come gli onnivo­ri cinghiali; i caprioli, che amano vivere nel sottobosco più fitto; piccoli roditori come il quercino, il ghiro e gli scoiattoli; serpenti co­me la biscia e la vipe­ra».

Luigi Bisignani non è un tordo ma nemme­no una vipera. Lavora da sempre nel sotto­bosco, come molti al­tri animali politici di tutte le specie, di tutte le tendenze politiche. Intercettate la natura e avrete suoni a diver­so registro timbrico per una conversazio­ne inconcludente in cui nutrimento, gioco e sopravvivenza si rincorrono con spontanea noncuranza. Non sarà un caso se nelle chiacchiera­te divulgate ai giornali nell’ambi­to di un’indagine da stato di poli­zia, spesso impudiche e talvolta gustose, ricorrono nomi politici che dovrebbero essere incompa­tibili come D’Alema, Monteze­molo, Letta, amici di Prodi e mol­ti interlocutori del mondo del po­tere industriale, economico e fi­nanziario, privato e di Stato. La politica è da sempre fatta così, a ogni latitudine e longitudine: scarsa illuminazione e molta umi­dità all’ombra di alberi d’alto fu­sto. Sullo stato di salute degli albe­ri d’alto fusto la diagnosi va facen­dosi sempre più malinconica, ma il sottobosco non verrà mai sradi­cato dal panorama della città, dal bosco umano in cui siamo obbli­gati a convivere. Il problema non è nelle quattro fesserie che si sono detti al telefo­no gli attori dell’ultimo teatrino detto della P4.

Il problema è che la politica è così debole e divisa da non riuscire a impedire lo scandalo infinito delle retate telefo­niche. Caduto l’articolo 68 della Co­stituzione, voluto dai padri della Re­pubblica, non esiste più riparo dallo «estado policial». Il principio di ba­se della giustizia è che si indaga su notizie di reato, e queste notizie de­vono essere sufficientemente defini­te. Da anni, con le intercettazioni, che sono il sostituto politico di ciò che ha rappresentato il cattivo penti­tismo negli affari di mafia, avviene il contrario. Certi pubblici ministeri ascoltano le conversazioni private ad libitum , si inoltrano nel sottobo­sco e vanno a caccia di passeri e frin­guelli molto ciarlieri, e poi sparano ipotesi di reato fantastiche come le associazioni segrete, naturalmente per delinquere, e se le ipotesi cado­no, ecco pronto qualche marchinge­gno come il favoreggiamento o altre fattispecie per emettere ordinanze d i custodia cautelare e passare i testi ai giornali, che li usano in un tripu­dio tribunizio di falso moralismo: l’obiettivo non è vincere un proces­so e affermare la legalità contro il cri­mine, bensì quello di organizzare un drammone mediatico e distrug­gere la politica, la sua autonomia, i suoi canali informativi riservati, il suo modo di operare che non è mai eticamente irreprensibile, ma non è sempre necessariamente criminale (può succedere anche questo, è ov­vio).

Brigare, spicciare faccende, tene­re relazioni riservate sono cose di or­dinaria amministrazione, strumen­ti ambivalenti e irregolari del funzio­namento delle istituzioni e del mer­cato.

Le regole del gioco prevedono questa eccezione concreta alle rego­le astratte, e chi lo nega è un bugiar­do di quattro cotte. Le retate spioni­stiche della magistratura militante, che ormai domina molte città italia­ne attraverso i suoi rappresentanti entrati in politica, sono un segno di degenerazione del sistema legale, nelle mani di un partito dei magistra­ti che ha una aperta vocazione all’on­nipotenza. «Calunniate, calunnia­te: qualcosa resterà»: così l’astuto Talleyrand.

La nuova parola d’ordi­ne dei poteri forti mediatico-giudi­ziari è questa: «Intercettate, origlia­te, spiate: qualcosa resterà».

Niente o quasi niente che sappia di effettive responsabilità penali personali, ma un processo di piazza alla politica che non si sa dove mai potrà portare le istituzioni. Questo resta.

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