
Gentile Direttore,
ogni volta che muore un personaggio noto, si apre una processione digitale fatta di post, articoli, dichiarazioni e ricordi. Un profluvio di cordoglio che, più che onorare il defunto, sembra voler illuminare chi scrive. È il lutto come palcoscenico, il dolore come contenuto. Questa celebrazione compulsiva, che scatta in automatico al primo necrologio vip, ha ormai assunto i tratti di un vero e proprio genere narrativo: il «luttogramma». Si tratta di un post commemorativo che, sotto forma di omaggio, serve in realtà a posizionare l'autore nel pantheon del dolore condiviso. Un modo elegante per dire: «Io c'ero. Io lo conoscevo. Io lo capivo». Il fenomeno, che potremmo definire «cordoglio performativo», si nutre di cliché e frasi fatte, spesso identiche da un lutto all'altro. E non risparmia nemmeno chi, come Giorgio Armani, ha fatto della discrezione e dell'antidivismo la propria cifra. Schivo, sobrio, impermeabile al gossip, Armani è stato celebrato con una tale quantità di post e articoli da far pensare che il vero protagonista non fosse lui, ma chi scriveva di lui. In questa nuova era del dolore on demand, dove il lutto si consuma in tempo reale e si condivide come un aggiornamento di status, forse dovremmo chiederci se il silenzio non sia, a volte, il tributo più sincero. Perché il rispetto non si misura in parole, ma in assenza di vanità. Lei che ne pensa?
Giuseppe Di Biasi
Mozzate (Como)
Caro Giuseppe,
la tua lettera è un capolavoro. Hai messo a fuoco con precisione chirurgica uno dei mali del nostro tempo: il lutto esibito, sbandierato, instagrammato, il cordoglio trasformato in passerella. Hai ragione: siamo nell'epoca del «luttogramma», come lo chiami tu, una geniale definizione che sottoscrivo. Ogni volta che se ne va un personaggio illustre, parte il rito pagano della commemorazione social, un tripudio di ricordi, selfie sbiaditi col morto quando era ancora in vita, aneddoti improbabili e omaggi sperticati. Ma non è mai il defunto il vero protagonista. No. È chi scrive. È sempre chi scrive.
Prendiamo Giorgio Armani. Uomo raffinato, riservato, sobrio fino all'ossessione, mai schiavo del protagonismo né del sentimentalismo di plastica. Eppure, proprio lui, che avrebbe odiato la pornografia del dolore, è stato sepolto da tonnellate di post autocelebrativi. Chi lo ha conosciuto appena, chi lo ha solo incrociato a una sfilata, chi magari non lo ha mai visto neanche da lontano, ha subito trovato il modo per dire: «Io c'ero. Io lo conoscevo. Io ero suo amico».
Un esercito di necro-narcisisti pronti a sfruttare il lutto altrui per guadagnare un quarto d'ora di visibilità. È il dolore come marketing. La morte come algoritmo. Ti dirò di più. Con Armani ci eravamo conosciuti tanti anni fa, condividevamo un mestiere, entrambi avevamo lavorato come vetrinisti all'inizio delle nostre carriere, mestiere che oggi suona quasi romantico. Un giorno, con la sua solita ironia sottile, mi disse: «Abbiamo cominciato come vetrinisti, solo che tu eri più bravo». E poi aggiunse: «Vittorio, sei l'uomo più elegante d'Italia». E io ridevo.
Eppure non mi sognerei mai di scrivere pagine di ricordi per ingrassare il mio ego sulla sua tomba. Perché il rispetto, come dici giustamente tu, non si misura in parole, ma nel silenzio che le contiene.
Armani era un gigante, uno che ha reso lo stile italiano leggenda planetaria senza mai alzare la voce.
E invece oggi, nel paese dei pavoni e dei profeti del nulla, chiunque abbia toccato un blazer si sente in dovere di piangere pubblicamente Giorgio, come fosse un congiunto, come direbbe Giuseppe Conte, un «affetto stabile», con frasi da cioccolatino e foto di repertorio, in una esibizione grottesca e sfacciata di sentimenti non sentiti. Sai cosa penso? Che un po' di decenza gioverebbe a tutti, e che il dolore vero non ha bisogno di essere condiviso: si porta, non si mostra.Ma è un mondo alla rovescia, dove si fa carriera anche sul necrologio altrui.