«Non vi dico niente, parlate con il procuratore», dice il pm Roberto Pellicano, titolare dell’inchiesta sul vigile che ha ammazzato un cileno. «Non vi dico niente», dice il procuratore, Edmondo Bruti Liberati. Dalla sera di lunedì, la Procura si trova a che fare con un caso che appartiene d’ufficio alla categoria delle «rogne»: perché indagato c’è un uomo delle forze dell’ordine, un agente di polizia giudiziaria, uno di quel popolo in divisa che con la Procura vive in una sorta di simbiosi.
Fino all’altro ieri, il vigile Alessandro Amigoni poteva essere in Procura a portare un rapporto, o in aula a testimoniare. Da ieri è nel registro degli indagati per omicidio volontario. E la Procura si trova a dover conciliare il suo principio fondamentale, «la legge è uguale per tutti», con l’esigenza di non guastare i rapporti con le forze di polizia che sono di fatto il suo braccio operativo. Edmondo Bruti Liberati sa bene che, qualunque sia la linea di condotta che la Procura sceglierà in questa vicenda, verrà vissuta da tutti i «ghisa» milanesi come un messaggio e ne influenzerà gli umori e i comportamenti.
Non è la prima volta che succede. Di poliziotti e carabinieri chiamati a rispondere di decessi causati in servizio sono densi gli archivi giudiziari milanesi. Sono episodi legati in gran parte agli anni di piombo, della violenza politica: dove forse era più marcata la tendenza «garantista» nei confronti delle forze dell’ordine, esposte allo scontro quotidiano con gli estremisti, e in qualche modo bisognose di tutela giudiziaria. «Legittima difesa», «uso legittimo delle armi», «colpo accidentale»: sono queste le formule che in quegli anni portarono ad archiviare i procedimenti penali aperti a carico di uomini in divisa per la morte di manifestanti.
Quella forma di tutela particolare appartiene al passato. Certo, in considerazione del loro status, gli appartenenti alle forze di polizia riescono quasi sempre ad evitare la custodia in carcere, e a venire indagati a piede libero. Ma poi il conto arriva. É il caso, per esempio, della morte di Giuseppe Turrisi, il clochard della Centrale morto per le botte nel posto di polizia della stazione nel 2008: la Procura si mosse senza riguardi, facendosi largo tra verbali falsi e versioni di comodo, e alla fine uno dei due agenti è stato condannato a dieci anni di carcere. Spesso le inchieste devono fare i conti con il guscio protettivo che i colleghi dell’indagato tendono a creargli intorno: quando il poliziotto Walter Ravarro, «fatto» di coca, sparò accidentalmente in testa a due giovani, sotto inchiesta per favoreggiamento finirono anche cinque suoi colleghi che avevano cercato di aiutarlo.
Ma la Procura sa anche che l’uso delle armi per un poliziotto fa parte del mestiere, e che l’incidente è sempre in agguato: «impugnata la pistola a scopo intimidatorio l'agente sarebbe poi inciampato» si legge nelle cronache che a pochi giorni di distanza, nel novembre 1997, raccontano la morte di un nordafricano e di un albanese nel corso di altrettanti inseguimenti. Come anche i pm devono tener conto della facilità con cui a volte si accusano i poliziotti: è il caso di Michele Ferrulli, il 51enne morto durante un controllo in via Varsavia nel luglio scorso. «É stato un pestaggio», disse la figlia, si mobilitarono i centri sociali, quattro agenti finirono sotto inchiesta fin quando l’autopsia stabilì che l’uomo era morto per cause naturali.
Anche in quel caso, a coordinare le indagini fu direttamente, il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, che da ieri dirige anche l’inchiesta sul vigile Amigoni all’insegna di una linea che si può riassumere così: rigore sostanziale, cautela nei metodi, e soprattutto tempi rapidi.
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