In Procura trattamento di favore «Quelle carte? Per noi irrilevanti»

Giorni fa sfogliando il Corriere della sera abbiamo appreso con stupore che la procura di Roma, da sempre, è convinta che la proprietà della casa di Montecarlo sia di Giancarlo Tulliani. Il dettaglio non è di poco conto se si presta attenzione alla nota con cui lo stesso ufficio giudiziario, ieri, s’è affrettato a bollare come «irrilevanti» le carte del governo di Saint Lucia, girate a piazzale Clodio dal ministro Frattini, che certificano oltre ogni ragionevole dubbio la titolarità delle società off-shore (Printemps e Timara) che si sono rimpallate l’appartamento monegasco. Insomma. Pur essendo fermamente convinti che le società sono direttamente riconducibili a Giancarlo Tulliani, i pm si sono sentiti in dovere di correre in soccorso di Fini spiegando che a loro non importa sapere quel che già sanno, ovvero chi c’è dietro quelle società. Perché sono fermamente convinti «che la vendita dell’appartamento è avvenuta senza artifizi o raggiri e senza induzione di terzi in errore». Il controsenso diventa ancor più incomprensibile per i tempi (non si capisce la fretta dei pm di anticipare le proprie deduzioni a poche ore dalla bomba dei carteggi caraibici) e per quanto si legge nel seguito del comunicato del procuratore capo Giovanni Ferrara e dell’aggiunto Pierfilippo Laviani stilato ad uso e consumo della stampa, e di conseguenza del gip che il 2 febbraio dovrà pronunciarsi su Fini e il senatore Pontone. Per la procura, dunque, questo materiale chiarificatore del ruolo del cognato del presidente della Camera, e dello stesso Fini, «è del tutto irrilevante circa il thema decidendum giacché la richiesta di archiviazione formulata da questo ufficio è fondata, quale che sia il reale acquirente dell’immobile, sulla mancanza di elementi costitutivi dell’ipotizzato delitto di truffa». Il ragionamento dei pm è dunque il seguente: non essendoci stata la truffa, non possono esserci carte utili all’inchiesta. Perché «dalle indagini è risultato che Gianfranco Fini, all’epoca della vendita, era amministratore esclusivo dell’associazione/partito Alleanza nazionale, con tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione, sicché il predetto, in autonomia, ha deciso e disposto la vendita dell’appartamento, senza artifizi e/o raggiri e senza induzione di terzi in errore». La tesi della procura è quella che Fini sarebbe truffatore e truffato al tempo stesso: quale presidente e amministratore del partito (considerato un’associazione non riconosciuta) rappresentava il movimento politico ed era titolare dei beni mobili e immobili di Alleanza nazionale. Poteva fare e disfare come gli pareva. Un’obbrobrio giuridico insuperabile. Che però i pm romani hanno scoperto essere tale solo dopo aver saputo che l’oggetto della loro inchiesta - ovverosia la congruità del prezzo di vendita dell’appartamento di Boulevard Charlotte - andava a inguaiare Fini secondo le risultanze delle autorità monegasche che parlavano di un prezzo tre volte inferiore alle stime dell’epoca. Di conseguenza «nessun ruolo penalmente rilevante può assumere la condotta del senatore Pontone, il quale, nel caso in esame, ha rivestito la mera figura di mandatario dell’onorevole Fini, firmando l’atto notarile di compravendita alle condizioni indicate dal mandante e in virtù di procura generale a lui conferita il primo dicembre 2004 dal presidente Fini stesso».

Per una procura che ha offerto una «tutela mediatica» senza precedenti al presidente della Camera, evitando a lui e al cognato pericolosi interrogatori e una devastante gogna giornalistica, mentendo ai cronisti sulle firme uguali nel contratto d’affitto («Sono diverse» dissero) tenendo segreta la notizia dell’iscrizione sul registro degli indagati che avrebbe portato Fini dritto alle dimissioni, (iscrizione avvenuta clamorosamente il giorno della richiesta d’archiviazione), a Montecarlo non è successo nulla di rilevante. Penalmente forse, non politicamente.

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