Prodi lasciato solo al Senato «Io di Telecom non sapevo»

«Processo d’appello» per il Professore. Ma stavolta i big del governo non si fanno vedere

da Roma

«Questo dibattito sembra l’appello di un processo di Pretura». Parla da addetta ai lavori, la ex magistrata e ora capogruppo dell’Ulivo Anna Finocchiaro, a commento della ripetizione un po’ fiacca e scontata di argomenti a carico e discarico già usati nel primo grado, quando Romano Prodi si difese alla Camera sul caso Telecom.
Ieri si replicava al Senato, e la prima cosa che si notava nell’aula rossa di Palazzo Madama era come il premier fosse un po’ più solo. Su 102 membri del governo, appena una decina hanno scelto di sedersi attorno a lui sui banchi dell’esecutivo, per lo più sottosegretari senatori. Due soli i ministri, che dovevano esserci per competenza: il titolare delle Comunicazioni Gentiloni e quello dei rapporti con il Parlamento Chiti. Niente Rutelli, niente D’Alema, e nemmeno i due ministri senatori Livia Turco e Clemente Mastella.
La linea di difesa di Prodi sul caso Tronchetti-Rovati resta la stessa: non sapeva nulla, nessuno lo aveva informato di alcunché, i vertici Telecom lo avevano ingannato e il suo braccio destro Rovati sfornava piani industriali per affibbiare allo Stato la rete tlc alle sue spalle e a sua insaputa. Restano le stesse anche le parole, e quella che già alla Camera era suonata come una «chiamata in correità» di qualche ministro e alleato: «Ribadisco che negli incontri che i vertici Telecom hanno chiesto a me, ma anche ad altri autorevoli esponenti del governo, si è parlato unicamente di una possibile partnership col gruppo Murdoch». Tralascia del tutto, Prodi, di citare quel suo comunicato dell’8 settembre, con il quale si smentiva il Messaggero che aveva parlato di contrarietà di Palazzo Chigi allo scorporo di Tim: se non prova, quanto meno sostanzioso indizio del fatto che il progetto di scorporo gli era ben noto anche prima dell’11 settembre, quando il Cda lo rese pubblico e Prodi si dichiarò «sorpreso e sconcertato» dando il via alla corrida con Tronchetti. Quanto all’intervista di quest’ultimo al Financial Times, viene liquidata così: «Non sarà certo un’intervista a costituire prova che il presidente del Consiglio e con lui il governo fossero a conoscenza del suo piano». L’aula rumoreggia, dai banchi Cdl più di una voce chiede: «E allora perché non hai ancora querelato Tronchetti?». Da quelli dell’Unione, silenzio. Prodi ignora tutti e prosegue a testa bassa: «Si è cercato di trascinarmi in una polemica tanto inutile quanto priva di fondamento», «demagogia e strumentalizzazioni hanno preso il sopravvento», le dimissioni di Rovati «fugano ampiamente ogni dubbio». Il premier ha fretta di chiudere il capitolo, nella speranza che non si riapra mai più. Per il resto, l’intervento è un riassunto di quello pronunciato a Montecitorio. Depurato, con gran delusione degli astanti, dal tormentone-cult del «per me in particolare», quello ripetuto otto volte alla Camera in difesa del suo passato Iri e trasformato in rap su Internet, suscitando le ire di Palazzo Chigi e di Bertinotti e l’accusa di «vilipendio» da parte dell’Unione. Depurato anche da quel riferimento al caso Telekom-Serbia che a molti alleati non era piaciuto e sul quale lo avevano invitato a lasciar perdere.

Alla fine la Cdl esplode in lazzi: «Ma quando risponderà Prodi?», «Ma chi l’ha visto Prodi?». E scatta il solo applauso dell’Unione, guidato dai capigruppo che si alzano in piedi per zittire i contestatori a suon di battimani. È l’unica difesa d’ufficio che l’aula riserva al premier.

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